Regia di Mario Monicelli vedi scheda film
Nel 1976 Vincenzo Cerami diede alle stampe – anche grazie all’aiuto di Pier Paolo Pisolini, che ne sollecitò la pubblicazione presso la Garzanti – un breve romanzo dal titolo insolito. Difatti quella di Un borghese piccolo piccolo è proprio una storia insolita, che vede al centro della scena il romano Giovanni Vivaldi, impiegato ministeriale prossimo alla pensione, tutto intento nel trovare appoggi nei piani alti per piazzare il buon figlio ragioniere. Quando il ragazzo viene ucciso durante una rapina – causando la paralisi della madre (una dolentissima Shelley Winters superstiziosa e disillusa), il padre comincia a maturare una lenta, turpe, crudele vendetta nei confronti dell’assassino. Alternando un primo registro da commedia e un successivo tono più tragico e terrorizzante, nel quale si percepisce bruscamente il crescendo drammatico, è un film essenziale, scarno, atroce.
E se nella prima parte sembra quasi non succedere nulla – anche se si capisce che qualcosa di nefasto è in agguato verso quel figlio tanto amato – e pare trattare le vicende di un impiegato medio che vuole piazzare il figlio (la piaggeria verso il potere, la massoneria cialtrona di rito scozzese, l’ambiente piccolo borghese degli impiegati: da segnalare lo strepitoso Spaziani di un Romolo Valli pieno di forfora), nella seconda si toglie aspramente la maschera e si mostra per quel che è: un film dell’orrore contemporanea sui mostri sociali che allo stesso tempo sono vittime non solo di loro stesse ma dell’intera società. È la vendetta malata di un uomo comune, schiacciato dagli imprevisti della vita, invecchiato improvvisamente, che diventa giustiziere silenzioso e spietato. E forse non è un caso che riesca a manifestare il proprio intollerabile dolore solo dopo la morte dell’uccisore del figlio – compiuta praticamente da lui, dopo estenuanti torture. Riesce a piangere solo sapendolo morto.
Mario Monicelli fotografa la vicenda con livida intensità e crudo realismo, ma è soprattutto Alberto Sordi a rendere il film memorabile. La sua preziosa prova – nonché la prima volta alle prese con un vero ruolo da tragedia – è semplicemente meravigliosa, e la sua forza sta in quella sorpresa che il pubblico verifica nel vedere un attore del genere in vesti insolite, che non straripa ne sordineggia. Con questo borghese piccolo piccolo, col vendicativo e sofferto Giovanni Vivaldi, Alberto Sordi mette a segno il bersaglio migliore della sua fulgida carriera e la sua presenza si rende insostituibile specialmente in due scene: quella della massoneria, sottilmente inquietante ma profondamente satirica (e non è da sottovalutarsi la lettura satirica che si potrebbe dare alla pellicola, in particolare nel rapporto con i potenti di turno), e quella del cimitero, con le bare ferme in sosta in quel grande magazzino e le urla disperate a far da lancinante colonna sonora (è infatti una scena straziante e di una crudeltà allucinante). Corredato da musiche incalzanti ed ipnotiche, l’inquietante finale condanna senza dubbio il gesto di Giovanni, che ha ormai abbandonato uno straccio di moralità.
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