Una delle cose più divertenti da fare quando si guarda un prodotto del cinema mainstream è cercare di cogliere i nessi esistenti tra le pratiche, i valori e, soprattutto, i sentimenti appartenenti a un determinato gruppo sociale, nonché la materia narrativa su cui il film è stato costruito. Detto che, in generale, si tratta di una cosa abbastanza facile da rilevare, a patto di volerci dedicare un minimo di attenzione, la questione diventa interessante quando al centro della scena c'è la trasposizione di uno stato d'animo che risponde ai bisogni di un'intera nazione. "American Assassin" di Michael Cuesta ce ne propone un esempio che potrebbe essere addirittura paradigmatico rispetto alle conseguenze di ciò che è successo in America a partire dalla tragedia dell'11 settembre. A tal proposito, l'incipit del film non lascia dubbi su quale sia il contesto umano e ambientale nel quale si svolgerà il resto della storia, né sulla tipologia del punto di vista con il quale il regista si rivolge alle vicissitudini dei personaggi e, in particolare, a quelle così drammatiche che riguardano il giovane protagonista. Nella prima sequenza - ambientata nella spiaggia di un resort mediorientale - assistiamo dunque all'attentato di un commando di terroristi islamici durante il quale Mitch Rapp è testimone impotente dell'uccisione della fidanzata. In quelle successive, dal tenore fortemente introspettivo, prendiamo atto di come l'elaborazione del lutto abbia trasformato il ragazzo in una sorta di giustiziere determinato a uccidere i responsabili dell'omicidio e pronto a combattere il resto della Jihad.
Alla luce di quanto appena scritto, "American Assassin" non è un semplice revenge movie ma, per il fatto di ricongiungersi - idealmente - al sangue americano versato a Ground Zero, diventa espressione di qualcosa che si colloca a metà strada tra il richiamo ancestrale verso una violenza coincidente con l'atto stesso di fondazione del paese e la necessità di far passare un'idea di sicurezza confermata dall'efficacia con cui Mitch riesce a scovare e poi eliminare i suoi antagonisti. Da questo punto di vista, "American Assassin" conferma i pregiudizi di certa critica che guarda a questo tipo di prodotto come a un'estensione della macchina propagandistica messa in piedi dal governo americano e perciò intriso di una retorica conservatrice. In realtà, pur nella sua propensione a una spettacolarità priva di scrupoli, quando si tratta di utilizzare le persone come sagome per il tiro al bersaglio, Cuesta dà il meglio di sé infilandosi senza indulgenze nelle falle del sistema. Con la variante - rispetto al sottovalutato "Kill the Messenger" - che, operando all'interno di un film destinato al grande pubblico, la messa in discussione dell'integrità morale dell'eroe e di chi gli sta accanto avviene con cautela per non perdere la fiducia dello spettatore.
Così, se da un lato il rapporto tra Mitch e Stan Hurley (Michael Keaton), l'istruttore chiamato ad addestrarlo quando il ragazzo viene reclutato dalla CIA, procede sui binari dell'ordinaria amministrazione cinematografica e sulla reciproca stima (dissimulata a fin di bene dal secondo) tra le parti in causa, dall'altro "American Assassin" mette continuamente a repentaglio il presupposto della violenza giusta e morale che di solito permette ai buoni di essere giustificati anche quando compiono le azioni più efferate. Se si guarda alla motivazione dei vari personaggi, si potrà constatare che al centro della questione non c'è l'amor di patria, né gli ideali di giustizia e libertà altre volte sbandierati, ma ragioni che rispondono a questioni strettamente personali e che, per quanto riguarda Mitch e il suo principale avversario (Ghost, interpretato da Taylor Kitsch), sono la risposta a una devianza di natura patologica. È in questo ribaltamento di prospettive che "American Assassin" riesce a farsi interprete dell'inconscio della nazione e delle sue paure più profonde, mostrandole nelle facce stralunate e nervose degli interpreti e sulla emaciata vulnerabilità di corpi lontani anni luce da quelli anabolizzati in dote alla maggior parte dei loro colleghi. In tal senso, risalta la scelta di un attore come come Dylan O'Brien ("Maze Runner"), coinvolto in prima persona nelle performance ginniche del suo personaggio, eppure capace di conservare lo stupore di chi non riesce a credere a ciò che sta accadendo. Una peculiarità che fa il paio con quella più amena riguardante il dettaglio delle location, e con la scelta di ambientare nel complesso di Corviale a Roma una parte del film, quella in cui a un certo punto ritroviamo il laboratorio dove viene assemblato un potente ordigno nucleare.
(pubblicata su ondacinema.it)
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