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Un sogno chiamato Florida

Regia di Sean Baker vedi scheda film

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La recensione su Un sogno chiamato Florida

di Peppe Comune
7 stelle

Nelle zone adiacenti a Disney World, il parco di divertimenti più grande degli Stati Uniti, le stanze dei motel non servono più per ospitare i turisti provenienti da tutto il mondo, ma rappresentano l’unica abitazione che possono permettersi le persone che sono rimaste senza più una casa. In uno di questi, il Magic Castle, abitano Moone (Brooklynn Prince), una bambina di sei anni già molto sveglia e incline a fare disastri, e la madre Halley (Bria Vinaite), una ventiduenne che vive di espedienti vari, come fare la ragazza immagine in in night club o cercare di vendere merce contraffatta ai clienti ricchi dei vicini alberghi di lusso. Fino a tentare anche la strada della prostituzione a domicilio pur di sbarcare il lunario. Siamo in piena estate, la scuola è chiusa, e Moone se ne sta sempre in giro con altri suoi amichetti, approfittando anche del fatto che la madre è fin troppo permissiva nei suoi confronti. I suoi migliori amici sono Scooty (Christopher Rivera) Dicky (Aiden Malik) e Jancey (Valeria Cotto), e insieme ne combinano di tutti icolori. Veglia con discrezione su tutti i bambini Bobby (Willem Dafoe), il custode dei motel che aggiusta ogni cosa e che vigila affinchè siano rispettate le regole minime del posto e che ognuno paghi regolarmente l’affitto. Una figura rassicurante che da un tocco di disinteressata umanità a un luogo votato alla marginalità sociale.

 

Brooklynn Prince, Valeria Cotto, Christopher Rivera

Un sogno chiamato Florida (2017): Brooklynn Prince, Valeria Cotto, Christopher Rivera

 

“Un sogno chiamato Florida” di Sean Baker è un film dal timbro narrativo schietto e diretto, dalla sostanza leggera e dai contenuti stilistici da ricercarsi nell’architettura anticonvenzionale della messinscena e della tecnica di regia, che accorpa in un'unica veste stilistica virtuosismi di macchina e riprese amatoriali (si racconta che il finale del film girato all’interno del Disney World sia stato girato con un iPhone). Caratteristiche tipiche del cosiddetto Cinema indipendente, quello che si tiene lontano dalle regole date del mainstream con la stessa accortezza con cui cerca di dare una patente di visibilità a “irregolari” spaccati di vita carpiti dalla realtà difficile di ogni giorno. Sean Baker ci porta in prossimità di quel luogo magico che è Disney World, facendocelo intravedere soltanto fugacemente nella parte finale del film. Per il resto, la macchina da presa si tiene a debita distanza, posizionata tra le famiglie che hanno trovato un’abitazione di fortuna, intenta ad osservare un gruppo di bambini che durante le vacanze estive si divertono nell’unico parco giochi che realmente conoscono, quello che gli consegna la libertà di potersi muovere come vogliono e senza confini precisi. Una scelta narrativa precisa che ha un suo perché nel voler mettere in relazione lo spirito anarcoide che aleggia lungo tutta la storia e lo spazio abitativo dove la storia stessa si svolge, tanto vicino al “magico mondo” di Disneyland quando lontano dalla sua ostentata magniloquenza. Sean Baker fa di Halley e Moone i centri propulsori del racconto, una madre e una figlia molto sui generis con un rapporto molto bello perché improntato al massimo grado di complicità, senza steccati preventivi e senza quei filtri che dovrebbero esserci nel rapporto tra un adulto e un bambino. Una complicità che evidentemente comporta anche un prezzo da pagare per la madre, che può riguardare la sua condotta di vita e il futuro stesso della piccola Moone. Ma Baker mostra di non fregarsene più di tanto, di non voler intervenire con piglio moralistico nella vicenda, definire se Halley sia una buona o una cattiva madre, se l’eccessiva permissività concessa alla figlia sia una cosa giusta o una cosa sbagliata. Quello che gli interessa è raccontare una storia tipo di “normale” difficoltà esistenziale, parlare di vite precarie senza mostrarne il carattere recriminatorio, e farlo avendo sullo sfondo un’icona emblematica dell’American Dream.

“Un sogno chiamato Florida” è filmato ad altezza di bambino, sono loro a determinare il ritmo del film e a direzionare le azioni dei grandi. Sono i bambini, attraverso le loro inconsapevoli marachelle, a ricordare agli adulti che ci sono dei limiti che non si devono superare, sono loro, con quell’infantile spensieratezza che gli è propria, a costringerli ad interrogarsi sul grado di permissività che è più giusto concedergli. Questo aspetto narrativo però non lo rende un film incentrato sul rapporto filologico tra i bambini e i loro genitori, tutt’altro, ma è servito all’autore per usare la naturale ingenuità dei bambini come termine di paragone tra il loro modo spontaneo di farsi bastare quanto offerto loro dall’ambiente che li circonda e il fatto che a pochi metri di distanza esiste un luogo venato di magia dove si smercia sfarzo a buon mercato.

I suoi personaggi si trovano nella condizione di vivere vicino a un “sogno” e di non vederlo praticamente mai. Di vedere le sue fattezze ma di non goderne mai i benefici. Di pensare che esiste un “sogno” e di poterlo anche raggiungere, ma di fregarsene in definitiva, lasciando che non nuoccia più del necessario. Gli adulti perché costretti a sbarcare il lunario per poter sopravvivere e ad accettare come viene quella che la vita del giorno per giorno gli consegna con puntuale regolarità. I bambini perché impegnati a giocare praticamente sempre e a scoprire che starsene a zonzo tutto il tempo è la cosa più bella che c’è.

Questo ci riconduce all’aspetto (forse) più importante del film, quello di rappresentare una storia che vive di contrasti : tra i colori pastellati che arredano gli esterni facendo somigliare i motel a dei luoghi da favola e le esistenze precarie che ci abitano dentro ; tra i nomi altisonanti (Magic Castle, Futureland Motel) dei motel, che evocano antichi splendori, e il fatto che sono di fatto diventati degli alberghi per i poveri ; tra gli sforzi di mantenergli la parvenza di luoghi votati alla socialità tra gli ospiti più o meno occasionali e la realtà dei fatti che ci consegna un quartiere dormitorio generato dalla disgregazione sociale in atto. In fondo, il contrasto più deciso vive all’origine della stessa struttura narrativa del film, tra la sensazione di libertà senza freni che permea per intero lo spirito della storia e i limiti a cui quella stessa libertà viene sottoposta, evidenziata dallo stato di cattività volontaria cui sembrano vivere i residenti dei motel, che è come se si tenessero a debita distanza da quel luogo simbolo del divertimento planetario che il Disney World, il confine imposto al loro raggio d’azione. Il sogno effimero da cui è preferibile tenersi lontano.  

Una figura centrale nell’economia della storia è Bobby, il guardiano buono e scrupoloso che fa il duro perché deve garantire un minimo di decoro a quella sorta di residence per emarginati sociali. Ma Bobby è fatto della stessa precarietà dei suoi ospiti e di questi ospiti si rende complice discreto. Lui è il custode di un mondo che non c’è più, una sorta di eroe molto concreto che resiste alla sua fine. Bobby è un Willem Dafoe che fa sentire tutto il suo carisma pur recitando in maniera dimessa.

Infine, credo che sia importante ricordare che la piccola Moonee piange per la prima e unica volta solo nel finale del film, quando capisce, con la tipica ingenuità di una bambina, che la vita non è sempre un gioco in cui si può fare quello che più ti diverte, che il mondo degli adulti è disciplinato da regole che chiedono di essere rispettate. Quando scopre in maniera del tutto inconsapevole che la Disney World dentro cui si vuole nascondere è un sogno di cartapesta che riluce di uno splendore ancora più luccicante perché si specchia nella vita precaria da cui ha appena imparato a fuggire. Ottimo esempio di Cinema indie “sull’altra america”. Da consigliare.

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