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Dearest Sister

Regia di Mattie Do vedi scheda film

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La recensione su Dearest Sister

di supadany
6 stelle

Far East Film Festival 19 – Udine.

Dearest sister è (solo) il decimo film prodotto nella storia del Laos, per quanto aiutato da una compartecipazione francese ed estone, per cui apre automaticamente una finestra su uno spazio sconosciuto, creando un interesse antropologico che va oltre la resa del soggetto stesso.

Allo stesso tempo, la regista Mattie Do sembra già pronta per nuove avventure, tanto vulcanica sul palco del Far East, quanto espressiva nell’intessere una storia senza orizzonti irraggiungibili evidenziando comunque la padronanza del mezzo e la capacità di ammaliare.

Per aiutare la sua famiglia di estrazione povera, Nok (Amphaiphun Phommapunya) si trasferisce alle dipendenze di sua cugina Ana (Vilouna Phetmany), una donna benestante che sta perdendo la vista nonostante tutte le cure provate.

Con l’avanzare della malattia, Ana è sempre più segnata nel fisico e nella psiche, ma acquista la facoltà di vedere ben oltre la realtà. Intanto, Nok approfitta della situazione per personale tornaconto, ma si accorge anche di un potenziale pericolo, proprio lì accanto a loro.

 

scena

Dearest Sister (2016): scena

 

Prima ancora di essere un thriller condito da alcuni riferimenti attribuibili a varie sfumature dell’horror, Dearest sister ha una valenza evocativa che gli permette di assumere i connotati di un (piccolo) esemplare d’autore.

I riferimenti al Laos sono inequivocabili e fortemente voluti, con un occhio alle tradizioni, tra vestiti e oggetti, gesti e rituali, in un compendio tra stili di vita, con l’arcaico del paesaggio periferico e il futuro, quest’ultimo già entrato dalla porta principale, con nuove esigenze che richiedono soldi e producono vizi (la parte relativa a uno smartphone è esplicativa).

Creata una partitura che innesta le distinzioni tra le classi sociali, con la forbice prodotta dallo sviluppo tra i centri brulicanti di vita e i villaggi sperduti nel nulla, Mattie Do rimane fedele al fondale, scandaglia i tratti psicologici delle due protagoniste e sviluppa il complemento oggetto, ossia il lato onirico e dissonante.

Come il cinema ha più volte descritto, dalla riduzione di un senso altri ne guadagnano così che, mentre lo spazio visivo diminuisce accartocciando la percezione del reale su se stesso, altri prendono campo, in questo caso addentrandosi nel sovrannaturale, con visioni anticipate, limitate a uno specifico settore, di ciò che sta per avvenire. Un’aggiunta che produce diverse percezioni: le principali sono stimolanti e dal contenuto simbolico, mentre altre, le secondarie, non sono disegnate con il goniometro.

In ogni caso, anche in virtù di un felice colpo di coda, Mattie Do lascia intendere di possedere qualità superiori alla media che, con una maggiore e costruttiva disponibilità alle spalle, potrebbero esplodere e, perché no, questo ulteriore passo potrebbe verificarsi già con il prossimo The long walk, che al Far East ha trovato i fondi per passare dalla carta alla pellicola.

Onore al merito all’autrice, che sembra possedere la tempra e le capacità per garantirsi(ci) un futuro artistico tutto in divenire e promettente.

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