Regia di Jim Jarmusch vedi scheda film
Il film si apre sull'odorosa poesia dei letti sfatti, delle cicche per terra e dei bicchieri sporchi di rossetto. L'ambiente è quello del noir degradato, intinto nel rap e nel trash, là dove un individualismo disilluso è lo strascico nichilista dell'american way of life. Lo stesso alone leggendario del gangster movie è ormai finito come un bidone dei rifiuti rovesciato: se i criminali sono sempliciotti disperati, i poliziotti hanno l'aria di mediocri impiegatucci. La prigione è gattabuia, un postaccio per poveri diavoli, la cui faciloneria, però, genera una sorta di comica magia. A loro modo, senza mezzi pratici né intellettuali, riescono, un po' per caso, a diventare eroi e poeti, nonché avventurieri attraverso una giungla immaginaria. Lo scenario è desolato e inerte, congelato in un'attesa senza senso, e non batte ciglio mentre Roberto (Benigni), con il suo inglese approssimativo e toscaneggiante, fa involontariamente a pezzi il mito letterario dei pionieri, del go west, a favore di una prosaica arte di arrangiarsi, famigerato patrimonio culturale nostrano. La scena in cui Roberto rievoca la sua famiglia arrostendo un coniglio in mezzo al bosco è uno struggente esempio di come il ricordo della mamma sia sempre un romantico scacciapensieri ed un toccasana contro tutti i mali, compreso il fallimento. Laddove l'americano può perdere la testa, l'italiano coltiva, invece, una convivialità contagiosa, che lo porta a non essere mai solo. Il nostro connazionale trova immancabilmente qualcosa o qualcuno a cui attaccarsi, che gli impedisce di smarrirsi e lo fa sentire, sempre e dovunque, a casa. Ecco perché, per noi dello Stivale, l'obiettivo non è mai quello verso cui si punta dritto da lontano, bensì quello che si incontra, vagabondando, a metà strada.
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