Regia di Liam Gavin vedi scheda film
Opera di sofisticata regia che riporta sugli schermi un tipo di horror suggerito, intimista e implicito. Una realizzazione quasi perfetta che però crolla, come castello di carte, a causa dei dieci minuti conclusivi. Dieci minuti che possono rovinare un bel film.
Galles. In una casa isolata di campagna, Sophia (Catherine Walker) sta facendo trasloco. È in questa nuova dimora che viene raggiunta da Solomon (Steve Oram), un inglese esperto di culti eterodossi: le intenzioni sono quelle di dare corso ad un lungo rituale, probabilmente esteso nel tempo oltre i sei mesi, durante i quali sono richieste a Sophia privazioni di vario tipo, dal cibo al sesso, accompagnate da continue e ripetute abluzioni in acqua fredda. Ma perché tutto questo? Sophia ha perso il piccolo Jack, e spera -affrancandosi dalla religione in favore di un culto pagano- di rimettersi in contatto con lo spirito del bambino.
"La scienza descrive il minimo delle cose. La religione, la magia sono archi verso l'infinito, in ogni cosa, verso il mistero." (Solomon / Steve Oram)
A scriverne la trama -visto che ha parecchi punti di contatto con lo sgodevole The other side of the door- non si rende merito a questo film, ch'è di certo interesse, tutto giocato sulla suggestione e sull'isolamento. Dove a fare paura sono le prese di coscienza -risvegliata da sussurri e piccoli rumori- dei due protagonisti, uniti in un viaggio spirituale che impone privazioni (in aggiunta a sofferte mancanze affettive) e rinnovazioni corporee. Frutto di una coproduzione tra Irlanda e Inghilterra, A dark song costituisce il (discreto) debutto di Liam Gavin, autore anche della sceneggiatura. In bilico tra realtà e superstizione (con maldestro affondo "aldilà", nell'infelice conclusione) il film segue un percorso in salita, tutto circoscritto all'ottima performance dei due bravi interpreti, abilmente condotti per mano dalla sobria regia e da una pertinente e malinconia soundtrack, anch'essa fondamentale presenza, pur se altrettanto invisibile.
Nonostante sia stato realizzato, quasi interamente, all'interno di quattro mura la tensione non viene mai meno anche se evocata da azioni che, diremmo, sembrano appartenere più alla sfera della superstizione che dei rituali misterici. Il clima tra sacro e profano, con protagonisti in stato di declino e di abbandono etico e morale, in certi indovinati momenti, è reso ancora più oppressivo da una colonna sonora che ricorda gli strumenti tribali (accostabile, per acustica, al lavoro di Rob Zombie ne Le streghe di Salem). Detto anche che il film segue pregevolmente -per quasi tutta la durata- il clima alla Tourneur (filone sublimato in capolavori tipo Il bacio della pantera o La notte del Demonio) riuscendo a spaventare solleticando l'immaginazione, appare quantomeno bizzarra, e impropria, l'epifania delle creature messe in campo per una manciata di minuti nelle (ridicole anziché no) sequenze prefinali. Di poco conto, nel senso che non sorprendono, i retroscena del perché Sophia voglia evocare entità vendicatrici, mentre uno scivolone incredibile Gavin lo fa nel finale, con quel colpo di scena buonista e talmente ridicolo (alzi la mano chi l'ha compreso) da mandare in fuffa tutta l'ottima costruzione del mistero che lo precede. Due minuti -due- in grado di far gridare allo scandalo. Di tutti i finali possibili, proprio quello peggiore è stato scelto e (purtroppo) girato.
L'eccezionale, e malinconica, OST (a cura di Ray Harman)
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