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Il silenzio

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Il silenzio

di logos
9 stelle

Se dovessimo davvero considerare Come in uno specchio, Luci d’inverno e Il silenzio come una trilogia religiosa del rapporto tra uomo e Dio, possiamo dire che l’ultimo rivela come la coscienza infelice non sia più in qualche modo legata a una trascendenza, che ancora si presenti nelle distorsioni della follia o nelle più svariate forme di amore, secondo una fede laica ancor presente nel finale di Come in uno specchio; ma non siamo neanche in quel silenzio che è pur sempre di Dio, ne quale l’esistenza può ancora rapportarsi alla trascendenza nell’abbandono di Cristo da parte del Padre (Luci d’inverno). Siamo di fronte, invece, al silenzio degli uomini, il cui linguaggio non rinvia più a significati, è incomprensibile, perché in quel silenzio le esistenze non comunicano più. Il dialogo, seppure precario, tra Dio e l’uomo, è spezzato, ma così lo stesso linguaggio dell’esistenza diventa una lingua sconosciuta, fabbricata, artificiale, distopica. Come è distopica la città Timoka di un paese straniero, presso la quale due sorelle (Ester e Anna) e il bambino Johan (figlio di Ester), devono sostare a causa dei malesseri di Ester.

 

Già all’entrata ferroviaria nella città, si vedono scorrere su binari treni che trasportano carri armati, resi ancor più inquietanti perché agli occhi del bambino appiano come modelli giocattolo. Il fatiscente albergo che li ospita è completamente lasciato a se stesso, spersonalizzato, si aggirano figure anonime, diventa un mondo da esplorare da parte del bambino, che rappresenta l’innocenza all’avventura. A Timoka si parla un linguaggio incomprensibile, forse di derivazione ugrofinnica.

“Il silenzio era originariamente chiamato Timoka. Una pura coincidenza. Ho visto il titolo in un libro estone, senza conoscerne il significato, ovvero che appartiene al carnefice” Ingmar Bergman.

Timoka, città che appartiene al carnefice dunque, esprime una sorta di totalitarismo, dove i singoli, sia nel consumo nei bari sia nel lavoro, sono completamente uniformati; nelle inquadrature fanno tutti le stesse cose allo stesso modo, ma non parlano tra di loro, se non per dare ordinazioni o per eseguirle.

 

La pellicola si concentra sul rapporto tra le due sorelle, che si dipana in quest’albergo. Ogni tanto compare il cameriere, una figura gentile, che all’inizio non comprende altre lingue ma poi sembra avere un’intesa sempre maggiore con la sorella Ester, sulla scia della musica di Bach che entrambi conoscono. Qui forse abbiamo un vago cenno di come la musica, quella che ancora si apre al trascendente, possa accomunare le esistenze, ma è solo un vago cenno. Abbiamo dunque due sorelle, il cui rapporto è assai ambiguo, conflittuale ma al tempo stesso speculare. Sono gli opposti che si attraggono e gli identici che si respingono, al punto da rappresentare simbolicamente la stessa personalità. Ester, malata di tubercolosi, sembra personificare la logica, la dimensione intellettuale dello spirito, la sua professione è quella di traduttrice, affinché la cultura possa essere ereditata da tutte le lingue. Al tempo stesso ha le sue debolezze, è vittima di una sensualità repressa che nella solitudine sopravanza le sue istanze fino a sopraffarla in un atto masturbatorio, in un continuo fumare e bere. Si tratta di una sensualità che invece viene espressa dalla sorella Anna, che mira esclusivamente al proprio interesse, e in un excursus per la città ha occasione di assistere morbosamente compiaciuta e turbata all’amplesso di due sconosciuti in un cabaret, per poi consumare un coito con un estraneo. Tutta questa sensualità, tuttavia, non è immediata, ma turbata, da un senso di oppressione, di incomunicabilità, da cui Anna stessa, inconsapevole, vorrebbe liberarsi.

 

La regia si concentra anche sulla personalità Johan, che a ben vedere non è poi così innocente. Soffre di un legame edipico con la mamma, è in continua ricerca d’attenzione (orina in un corridoio dell’albergo) e non a caso finge di sparare agli uomini (possibili rivali) e si fa attrarre da una compagnia teatrale di nani spagnoli, i quali lo travestono da bambina, per ricevere quelle cure che immagina la mamma riceva dagli uomini (meccanismo di identificazione). Ma poi, per ritrovare se stesso, ritorna dalla zia Ester, alla quale poter raccontare storie o recitare teatro con le marionette.

 

Decisivo diventa il conflitto tra le due sorelle: quando Ester rientra in albergo, si sente spiata da Anna, e allora le racconta tutto quello che è successo, reclamando la sua libertà sessuale, perché non vuole più dipendere da Anna, dal suo amore che sconfina in quello erotico. Ester la prega di rimanere, cerca di baciarla più volte, ma Anna ne è disgustata e se ne va. In una scena successiva, Anna si rifugia in un’altra stanza dell’albergo per fare l’amore con il suo sconosciuto, e Ester viene a saperlo dal bambino Johan che nel frattempo aveva spiato la madre. Ester naturalmente bussa alla porta, ma Anna infastidita accende la luce in modo da far veder che sta facendo l’amore con un uomo, e le ribadisce che non vuole più seguirla, vuole essere indipendente, libera dalle gelosie di Ester e dalla sua superiorità intellettuale. Fondamentale è il fatto che Anna sottolinea all’estraneo che è bello far l’amore proprio perché non si comprendono. Ester se ne va atterrita, ma poi, presa da un malessere, si accascia dietro la porta. Alla fine, scoperta, viene portata a letto, in uno stato semi-agonizzante.

 

A questo punto, in un modo quasi sorprendente, Anna decide di andarsene, di portare il figlio Johan con sé e di lasciare la sorella al suo destino morente, in compagnia con il cameriere dell’albergo. Qui il cameriere dell’albergo sembra assumere una figura sempre più complessa: è lui che aveva mostrato le salme al bambino, quasi lasciandogli intendere che erano i suoi propri cari scoparsi, ma è sempre lui che misura il tempo, e che resta a fianco di Ester verso l'imminente decesso, contando il ticchettio che scorre. Forse rappresenta la morte? Se si’, ci troviamo molto distanti da quella tutta simbolica e 'fragorosa' del Settimo sigillo. Qui la morte, nella sua cortesia, a dispetto dell’altra, non è tenebrosa, è cortese e gentile, infermieristica, medicalizzante, si potrebbe quasi dire asettica, oggettiva, alla quale non corrisponde affatto alcuna nostalgia del totalmente altro.

 

Nel finale ritroviamo Anna e Johan sul vagone di un treno, se ne vanno da quella città. A un certo punto Anna apre il finestrino del treno, e si lascia bagnare dalla pioggia, quasi come un atto di purificazione, ma senza alcuna catarsi, perché nei suoi occhi trapela una persistente angoscia mista a desiderio. Nel frattempo il figlio legge la lettera che Ester gli aveva lasciato; vi è la traduzione di alcune parole della lingua incomprensibile. Una parola è Hadjek, che il bambino mentre la legge, a differenza delle altre, la pronuncia distintamente, seguite dalla lettura di altre due, senza che se ne avverta alcun suono.  Questa parola dunque c’è ancora nella sua distinta pronuncia, ma è dentro le altre, può essere ancora una possibilità, ma del tutto esile, implosa nel significante, tutta appiattita nell’immanenza. Questo film, al netto delle censure italiane (scene erotiche, il modo in cui il bimbo legge la parola Hadjek non alla fine, traducendola con il signficato di anima, come vorrebbe la censura per fini spirtualistici, ma un po’ prima, non tradotta e poi seguita dalle altre senza suono percepibile) è naturalmente di difficile interpretazione.

 

Intanto con Il silenzio abbiamo finalmente un Bergman che scruta l’esistenza non nel silenzio di Dio, ma nel silenzio di un’umanità cha ha rinunciato all’esistenza, tutta appiattita su se stessa. Gli istanti che alludono al trascendente sono visti in controluce: si pensi all’autocommiserazione di Ester, di aver fatto una vita all’insegna della purezza, ma vi sono troppe resistenze; in realtà ha rinunciato all’amore perché rabbrividiva all’idea del sudore del corpo maschile, del suo sperma (censurato). Quindi una sorta di amore inibito, tutto trasferito eroticamente verso la sorella Anna, la quale a sua volta, crede nella sessualità, ma la oggettiva, non la rende carne della sua carne, la vive come un fatto meccanico.

 

La trascendenza è in controluce perché in entrambi i casi abbiamo esistenze irrigidite, che cercano la loro alterità, ma senza riuscirci, chiudendosi in una spiritualità o in una sessualità meccaniche, specchio del tempo storico, dell’alienazione diffusa della cultura borghese e sovietica, una cultura umanistica, certo, che dopo essere stata narrata nel suo rapporto con Dio, ora viene presa di mira, destrutturata, nel suo silenzio oggettivo quale esito del mondo della tecnica.

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