Regia di Massimiliano Bruno vedi scheda film
La beata ignoranza è quella di chi non ha visto questa roba. Spinta oltre il lecito, sponsorizzata ovunque, spacciata – dai soliti media-pusher – per “caso”.
Ma che caso.
Di casuale, semmai, c'è l'adozione di un tessuto tematico d'attualità per imbastire l'ennesima balorda, sconclusionata sarabanda pseudocomica/pseudoriflessiva.
Era dell'internet, dell'iper-approvvigionamento tecnologico, dell'ineluttabile estensione dell'identità reale in quella virtuale: un dettaglio trascurabile che lo spunto – di per sé manco originale – rimanga, esilissimo e flaccido, come scritto con l'inchiostro simpatico, solo sulla carta.
Non fisica né virtuale: solo straccia.
Già l'incipit (sparato a grancassa nei trailer, ovviamente: il duello verbale tra Gassman e Giallini, uno in urticante overacting, l'altro in malcelato imbarazzo) precipita intenti, realizzazione ed effetti nell'inequivocabile insulso mood che prevede, unicamente, lo sviluppo del gioco delle contrapposizioni.
Non se ne esce (mai, più).
I complici-burattini Marco Giallini e Alessandro Gassman danno così vita (si fa per dire) all'eterno scontro di anime e pensieri e facciate all'opposto: analogico vs. superdigitalizzato, ovvio; in più – immancabile: vagamente gustoso se non l'avessimo già visto quattrocentoventidue volte negli ultimi tre anni e mezzo – ipocritica intellettuale «cattocomunista» (testuale, sigh!) vs. cialtrone irresponsabile populista.
Complimenti: continuiamo così, facciamoci del male.
Il frutto non può che essere anonimo e insulso, dalla progressiva letale marcescenza: quello che si ottiene spargendo, random e senza idee né qualità alcuna (in primis, di scrittura), i semi guasti di una sociologia e una psicologia spicce, elementari, superficiali, da bigino generico e frettoloso trovato in rete (alla prima paginata di risultati offerta da google: troppa fatica, proseguire).
Non solo la “riflessione” rimane a uno stato larvale, approssimativo, “utile” soltanto alla produzione codificata di gag e siparietti – ma anche di istanze “serie” (poteva mancare la foto sexy hackerata dell'avvenente prof?) – dall'essenza mediocre, scipita, risolta sempre in caciara, il peggio, oibò, giunge con la scomposta, facile, triviale virata in territori soap.
Un senso – ridicolo, indigeribile – di Beautiful (romanesco) e dintorni pervade toni e temi, scene e tempi, facce e dialoghi, finale, divorandosi famelicamente il corpo filmico come iena s'ingozza beata di carcasse in putrefazione.
Dell'argomento internettaro non rimangono che le ossa: impossibile farci qualcosa, nemmeno da sostegno, se carne e muscolatura vengono inghiottite nel buco nero della greve becera farsa.
Macchiette come comprimari (già che gli stessi protagonisti per primi, lo sono) – quali la coppia di operatrice e microfonista, o quella dei fumati coinquilini di Gassman –, odioso tema musicale ricorrente in odor (mefitico) di ambient-mistico, scelte di dubbio (nel dubbio: orribile) gusto – quale la “rianimazione” della Crescentini defunta, ciarliera e leziosa dall'effigie sulla lapide, e accorgimenti registico-stilistici risibili (gli attori che parlano in camera; i flashback grossolani; la scusa del documentario girato dalla figlia) nonché un misero finale da colpo di grazia, danno l'esatta consistenza dell'opera.
Nessuna beata ignoranza: solo consapevole, furbissima cultura della più scadente, deleteria commedia italica, oggi.
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