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La leggenda della montagna

Regia di King Hu vedi scheda film

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La recensione su La leggenda della montagna

di EightAndHalf
9 stelle
Rispetto ad A Touch of Zen (1971), Legend of the Mountain (1979), firmato sempre da King Hu, è successivo di 8 anni. Si tratta dunque di un'opera più tarda del regista, ma forse anche più matura. Raggiunti nuovi vertici di complessità e brillantezza in fatto di regia e montaggio, King Hu affonda a piene mani nell'immaginario della Cina medievale, e tira fuori anche solo dalla fede buddhista ciò che è sufficiente per creare una storia di fantasmi. Sulla scorta di altri esperimenti antesignani dell'horror in Estremo Oriente (si pensi a Kwaidan di Masaki Kobayashi, però realizzato in Giappone nel '64), sempre puntualmente ispirati alle tradizioni religiose del luogo, King Hu rappresenta un microcosmo turbolento e crudele di esseri umani, mossi quasi esclusivamente dall'invidia, dal desiderio di potere e dall'ingenuità. Così come in A Touch of Zen, ogni personaggio nasconde più di un segreto, e mentre il regista li svela la trama si infittisce e si inerpica a livelli iperbolici ed estremi, finanche nel (volontario) grottesco. Ma non c'è poi così tanta ironia, nel film di King Hu, specie quando la vicenda evolve; e quella che c'è è stemperata in una struttura filmica che sembra edificata per coinvolgere e soprattutto sconvolgere lo spettatore.
 
 
Adottando una regia libera ed anarchica, e un montaggio che si rivela sempre consapevole del proprio ritmo e della propria forma, Legend of the Mountain esplora l'ignoto e il soprannaturale, abbandonando presto i dubbi dello scettico, e chiede una fede incondizionata e spontanea allo spettatore. La quale, dal canto suo, lo spettatore non fa fatica a dare, vista la magniloquenza delle scene di combattimento. Diversamente da A Touch of Zen, pochi sono gli scontri corpo a corpo; semmai, King costruisce un modo tutto particolare per rendere i conflitti. Tutto infatti, dalle interazioni umane agli atti violenti, viene compiuto o fuori campo o in una dimensione più invisibile, costantemente evocata dai movimenti di camera, dalle percussioni (che sacerdoti e demoni suonano per combattere) e dai twist narrativi che rendono Legend of the Mountain, via via che il minutaggio prosegue, una vera e propria storia di fantasmi. In cui regna, per l'appunto, l'invisibile.
 
 
Gli effetti speciali, artigianali, sono così fantasiosi e brillanti da generare commozione. Un uso/abuso di dissolvenze, cut istantanei e fumi colorati rendono il film denso di idee e di fascino, mai noioso e invece condotto da una climax ascendente che in A Touch of Zen sfociava nel mistico, in Legend of the Mountain riconduce a un punto di partenza, nel quale tutti gli avvenimenti alla fine, pur disponendo Bene e Male da (ingannevoli) parti diverse, sono risultati futili e vani.
 
 
Concepito come terremoto sensoriale, ancor prima che come action avvincente, Legend of the Mountain è uno spettacolo incredibile per gli occhi, e anche un film talmente legato a tradizioni e rituali della Cina da poter apparire certo distante dal nostro consueto modo di intrattenerci al cinema. Ma è una pellicola che apre la mente, e gioca con lo spettatore fino all'ultimo, con una rete di inganni e colpi di scena che possono solo essere stati ispirazione per molte altre pellicole successive che diamo molto per scontate.
 
 
 
Presentato nella sezione Venezia Classici, restaurato in una versione integrale di 192 minuti, a Venezia 73.
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