Regia di Tai Kato vedi scheda film
Tai Kato, nato cento anni fa nel 1916, è noto per i suoi piani-sequenza, le sue inquadrature dal basso, e per la realizzazione di una lunga serie di "documentari narrativi" durante la seconda guerra mondiale, all'inizio degli anni '40. The Ondekoza rientra invece nell'opera più tarda del regista di Kobe: datato 1979, ma editato solo nel 1981, è stato proiettato due o tre volte da quando è nato. Restaurato dalla Shochiku, viene presentato in versione rimasterizzata nella sezione Venezia Classici di Venezia 73. Un'opera distante dai più viziati gusti occidentali, ma di indubbio fascino ipnotico se con uno sforzo la si contempla attentamente. Certo necessariamente distante da chi ha necessità di linearità narrativa e non sa fare di una visione innanzitutto un'esperienza.
Ritenuto da molti esperti il capolavoro di Tai Kato, Ondekoza è un film che pulsa, sullo schermo, e avvampa tanto da prendere fuoco. Lo si può definire un ritratto collettivo, un musical totale, un antesignano della videoarte (o addirittura del videoclip!), o semplicemente un film sperimentale. In qualsiasi caso, lo si rinchiuderebbe in un'unica etichetta, e sarebbe esiziale per la formulazione di qualsivoglia giudizio più approfondito. Come tutti i capolavori, Ondekoza prescinde qualunque classificazione, e si innalza a pellicola solenne e monumentale. Paragonato a Budd Boetticher e Samuel Fuller da Kevin Thomas, Tai Kato è stato assistente di regia di Kurosawa in Rashomon, il che chiarisce l'estremo rigore che lo caratterizza. Pochi, se non nulli, i movimenti di camera, spesso volentieri appoggiata sul pavimento (à la Ozu, per intendersi), ma constatando le simmetrie delle riprese e la disposizione degli esseri umani e delle cose negli ambienti, non si può escludere un contatto col contemporaneo Nagisa Oshima.
In Ondekoza Tai Kato segue un gruppo di percussionisti professionisti di Tokyo, e dirige alcune loro esibizioni realizzate, probabilmente, appositamente per il film. Kato nega la possibilità di un impianto teatrale, il suo film è puro Cinema. Seppur dà voce ai protagonisti dando loro sporadicamente la parola, in riprese documentaristiche essenziali in cui si limita ad osservare, e li riprende nelle loro corse di allenamento, il 90% della pellicola è fatta di esibizioni. Apposite didascalie informano del tipo di performance: si passa dalla kagura all'oodaiko, dall'okesa dell'isola di Sado, dove molte delle esibizioni sono allestite, all'onikenbai (danza con le spade). Le uniche soluzioni di continuità fra un'esibizione e l'altra sono i gesti e gli sguardi. Infatti l'inserimento delle date è solo una formalizzazione superficiale adottata da Tai: spesso da campi lunghi spettacolari e spettrali, Tai si avvicina di scatto a un dettaglio (una mano, un volto), e cambiando la scenografia alle spalle del personaggio riesce a catapultare in altri contesti, addirittura in altri mondi, dunque tramite nessi di montaggio sublimi ed estetizzanti. L'effetto è ipnotico, lirico ed onirico, oltre che interessantissimo da un punto di vista squisitamente antropologico, in quanto Ondekoza può essere candidato ad essere uno dei documentari giapponesi più importanti nella rappresentazione di usanze e tradizioni dello spettacolo giapponese, che ancora negli anni Ottanta, e forse ancora oggi, sopravvivono al progresso e alla globalizzazione.
In una fissità che non esclude una sorta di danza visiva dinamica ed entusiasmante, Ondekoza trasporta lo spettatore su alte montagne, immobili distese marine, passando da costruzioni sceniche evidentemente fantasiose ad altre sempre più tangibili e secche, nelle quali comincia ad apparire, gradualmente, il pubblico, riflesso dello spettatore, al di qua dello schermo, che ammaliato è costantemente avvolto dai suoni e dalle immagini. Con gusto molto moderno, Tai utilizza dei suoni sintetici per i titoli di testa e di coda, e questi rievocano la solennità e la ieraticità delle esibizioni degli Ondekoza. Nonostante quest'inquietudine di fondo, tipica del kabuki e del teatro Noh (che è poi un'inquietudine ingiustificata: è l'occhio occidentale che probabilmente la percepisce come tale), alcuni momenti non negano una profonda tenerezza. Specie nel finale, quando Tai descrive le storie di ogni singolo personaggio tramite delle didascalie illustrative. E' così che viene data del Taiko una visione comunque legatissima alla realtà: viene considerata infatti un'attività temporanea e insicura per il proprio benessere economico, e il più delle volte si cerca di intrattenere occupazioni parallele, o di studiare per garantirsi un futuro in qualche altra attività. Da questo punto di vista Ondekoza ha anche il pregio di raccontare una realtà sociale giapponese non dissimile da qualsiasi altra società mondiale, per ciò che riguarda il lavoro e l'occupazione (l'iniziale discorso con la madre di un ragazzo che vuole entrare nel gruppo è chiara su tale aspetto).
La lunga esibizione finale, con il brano Monochrome II di Maki Ishii, è un capolavoro di altissima tensione emotiva. La chiusa perfetta per un viaggio che ha del trascendente, sia uditivamente che visivamente, visto che per realizzarlo si sono utilizzati Panavision e suono quadrifonico. Insomma, poesia per gli occhi e per le orecchie.
"Alla fine ho realizzato quello che davvero volevo creare" [Kato Tai]
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