Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Pietra miliare.
Un delirio ininterrotto, uno sfogo atteso tutta una vita, una sessione psicanalitica. Un'allucinazione, forse un sogno, un puzzle fatto di nebbia. Il brivido dell'incontro col proprio io. Ma anche una speculazione metacinematografica sul genere drammatico, che viene qui spogliato di tutti i suoi orpelli narrativi, figli dei gusti delle masse, della tradizione storica, o di discutibili ambizioni registiche. Due donne e solo loro, a condividere un palcoscenico privo di pubblico, senza intrusioni esterne (personaggi, eventi) che sottraggano quell'intimità necessaria alla ricerca del loro dramma. Appare fin quasi irriverente cercare di inscatolare questo capolavoro di Bergman entro una definizione univoca: Persona è un unicum cinematografico e fa corsa da solo, chiaramente stravincendo. Al solito, il cinema del maestro di Uppsala propone molte più domande che risposte: Bergman dà voce (quella dell'infermiera Alma) e volto (dell'attrice Elisabet, una stratosferica Liv Ullmann) ad angosce come l'infelicità, l'insoddisfazione, l'estraneità a se stessi, la non accettazione dell'io, il rifiuto del mondo. In particolare, Alma diventa espressione esteriore dell'urlo dell'anima di Elisabet, delle sue falsità, delle sue verità non dette, dei suoi scheletri nell'armadio: Alma si fa specchio, a riflettere tutto quanto ha condotto Elisabet alla sua condizione di mutismo. E in parallelo, il silenzio di Elisabet è radiografia del vuoto interiore di Alma, la quale sino a quel momento pensava nella sua beata ingenuità di possedere le chiavi della felicità: credeva che bastasse fingere a se stessa di avere uno scopo nella vita, e che bastasse corrispondere a un'idea di felicità decisa da altri. Come detto, il film non propone soluzioni: se lo facesse, il cinema di Bergman tradirebbe la sua natura e fallirebbe forse la sua missione. La presa di coscienza del problema non risolve il problema, ma anzi ci toglie il bene dell'inconsapevolezza (quella di fingere, di recitare, di indossare una maschera). Bergman a tal proposito dissemina il suo film di riferimenti al cinema e alla sua finzione: pellicole che scorrono sui proiettori, schermi con l'immagine sdoppiata delle due donne, persino una macchina da presa che riprende la morte (reale? recitata?) dell'attrice riversa con gli occhi sbarrati. In ultima analisi, il regista svedese annulla le distanze fra il cinema e la realtà, tra la verità e la finzione, fra le identità distinte delle due donne (che nella seconda parte del film sostanzialmente non riusciamo più a distinguere, persuadendoci del fatto che, forse, sono la stessa persona), tra il sogno e la veglia, addirittura fra la vita e la morte (un figlio morto ed uno ripudiato ed odiato, sostanzialmente mai esistito, sono accomunati dall'identico destino di agnello sacrificale), tra le due donne sullo schermo e l'osservatore cui si rivolgono nel loro delirio, con primi piani di sensazionale potenza scenica.
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