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Persona

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Persona

di EightAndHalf
9 stelle

Il cinema è sdoppiare e sdoppiarsi, specchiare e specchiarsi, ed è l'atto con maggiori conseguenze, incarnato in un rapporto umano. Confronto fra due oggetti, confronto fra due soggetti, confronto fra soggetto e oggetto, con il tessuto invisibile che li lega e li stritola, senza alcuna possibile fusione o senza alcun reale incontro. Dietro un rapporto un labirinto.
Persona è un film sulla desolazione, sulla frustrazione, sul fallimento. Bergman scarnifica all'eccesso un rapporto umano generando un'immane flusso che si infrange burrascoso sulla razionalità, sulla psiche, sull'Arte, per narrarne la morte, o addirittura l'immortale perversione. Tra l'essere e l'apparire c'è un burrone immane, come anche fra vivere e creare, elaborare un'opera d'arte. Sono tanti doppi che si incontrano e lottano per cercare di definirsi e capirsi, individualmente ancora di più che vicendevolmente. Ogni azione ritorna al suo fautore, ogni opera d'arte è un atto di sfegatato egoismo, e mima immerso fino al collo nela falsità e nella menzogna la vicinanza e l'empatia, due entità che in Persona sono gli eterni assenti. 
"Non importa cosa si ottiene, importa cosa ci si sforza di ottenere". Questo è l'unico asserto che rende il film di Bergman un qualcosa di vivo, pulsante, nonostante tutto. Una pellicola più carnale e concreta che astratta e intellettualoide, un viaggio intimo e straniato nei meandri dell'identità. Cosa può essere lo sfilacciato legame che unisce (e separa) le due donne protagoniste, che in un microcosmo isolato cercano di idenfiticarsi e scoprire vicinanza ed empatia nel distacco più totale dalle convenzioni umane? Qual è la loro ricerca, il cui fallimento genere continua sofferenza? 
Elisabeth è un'attrice che si chiude nell'afasia più totale per paura che ogni parola suoni finta, ipocrita, parte della sua maschera. Le sembra probabilmente l'unico modo di sbarazzarsi di questa sua scorza, di fronte alla quale lei stessa è sperduta, incapace di comprendersi. L'Io, quell'eterno sconosciuto. E sembra attendere il corpo e l'anima in cui potersi trasfigurare.
Alma è il doppio respingente di Elisabeth, due corpi e due pulsioni vicine solo fisicamente, che cercano di conoscersi ma finiscono per studiarsi a vicenda, falsificando quello che era l'incontro apparentemente più reale e vero fra due coscienze. Alma, infermiera, si trasferisce con la paziente Elisabeth in un'isola sperduta a scopo terapeutico, perché nel frattempo la possa analizzare per scoprirne i sintomi e capire cosa si cela dietro una persona che pure risulta sana di mente, ma che potrebbe essere "la più folle di tutte". Le posizioni gerarchiche però andranno scambiandosi, confondendosi, e dal momento in cui Alma comincia ad affezionarsi ad Elisabeth, è quest'ultima a rivelare tramite una lettera segreta che invece lei adora studiare Alma, come fosse lei la malata. Le posizioni si scambieranno ancora, la parola diventerà da analizzante ad analizzata, entrambe le donne percorreranno avanti e indietro queste due posizioni, fino a capire di essere davvero immobili. Il dolore provocato dagli altri, dagli uomini, è un dolore insito nell'esistenza umana, una voce imperturbabile che sussurra la distanza e l'isolamento, come se tra due persone che si osservano e vorrebbero conoscersi/entrare in empatia scorresse un velo che non a caso è una non-figura onnipresente nel film e si discosta per mostrare la verità della solitudine e spesso un corto circuito. E' dunque fatto finto e impossibile pensare di convertire le emozioni di un'altra persona in qualcosa che la nostra stessa persona possa avvertire, è impossibile capire il perché e il per come del comportamento dell'altra, anche della persona che più ci assomiglia e più cerca artificiosamente di riprodurci. E da qui il ruolo dell'attrice, che non è solo Elisabeth, ma Alma, perchè nella destrutturazione filmica Bergman rivela che c'è un legame stretto fra analisi scientifica/psicoanalitica e analisi artistica, e non perché siano due dimensioni che si confondono (anzi, rimangono eternamente separate), ma perchè invece percorrono due file parallele che cercano inutilmente di giungere a una possibile conclusione, la vicinanza (anche scientifica) e l'empatia (prettamente umana). L'incomunicabilità del nulla finale pronunciato da Elisabeth non è limitato alla sfera umana, ma anche alla sfera artistica, all'impossibilità di avvicinarsi a qualcuno o qualcosa. L'oggetto riflette il soggetto ma lo costringe a vedersi più che a rivelare se stesso per quello che è, e così facendo qualcosa si inceppa e perde il controllo, perché i passaggi non solo non sono immediati, ma neppure mediati. Semplicemente impossibili. E il fallimento e la frustrazione di queste distanze da qualsiasi cosa (anche da se stessi) è il destino dell'Arte. 
"Pensavo che agli artisti interessassero le persone normali." dice Alma ad Elisabeth. Ma non lo sta forse dicendo a Bergman, che su un altro percorso parallelo si chiede come possa quel rapporto impossibile fra le due protagoniste specchiarsi nel rapporto che lui stesso sta intessendo con la sua opera? L'atto della creazione artistica si disperde nei corto circuiti, quando il film inizia, quando Alma capisce che Elisabeth non le è vicina, ma la studia come un'entomologa a metà film, e alla fine (come all'inizio) in cui noi come bambini in ambienti asettici cerchiamo di toccare volti scogniti e sfocati ma neanche noi, osservando, riusciamo a cogliere niente. Si potrebbe pensare dunque che l'oggetto filmico di Bergman sia il nulla, il mancato messaggio, il girare intorno senza meta, la pluristratificata impossibilità di conoscere e conoscersi, ma se è importante ciò che ci si sforza di ottenere Persona finisce per accogliere un contenuto complessissimo, anormale, che lascia come unica possibilità quella di una singola azione, il fingere, il recitare, il riprodurre. Per questo lui scarnifica la verità stessa della sua arte e trova, in pochi secondi, la propria telecamera che non riprende, ma specchia. L'Altro (una persona, la nostra stessa opera d'arte) ci provoca dolore perchè ne siamo distanti, inconsci, non la afferriamo, non la controlliamo, prende il controllo come fosse un pirandelliano personaggio alla ricerca di un senso e improvvisamente si scordasse anche l'obbiettivo della propria ricerca.
E' vero che gli elementi romanzati nel film sono presenti, ma sono raccontati e mai vissuti, rievocati da un finto passato, come in una fase in cui ci si potesse illudere di essere veramente noi; ma così come Alma comprende che Elisabeth la studia, così Elisabeth comprende che voleva un figlio morto, perché la maternità era l'ultimo aspetto che mancava al suo personaggio di donna. Un po' come il senso dell'intero film, dell'intero piano bergmaniano. Le sue analisi girano in tondo e non capiscono, possono solo evocare, come in una ricerca a ritroso. E ci riescono, perché Persona si rivela un capolavoro estremamente moderno, che ci propone la terribilità di quanto sia limitata la libertà, la fantasia, la creatività. Ci sarà sempre distacco fra una cosa e l'altra, e noi possiamo arrivare solo fino a un certo punto e poi lasciare che le cose prendano il loro insensato percorso (come quando si dà alla luce un figlio). Un po' come nella tentata illusione di Mulholland Drive, in cui i personaggi così come la regia perdono il controllo, si confondono, si rendono asimmetrici, e rivelano gli sfrontati limiti della psiche. E la non-risposta è l'afasia, il nullaSilencio.

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