Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
"La sola cosa che non si può negare al mio film è che doveva essere un film".
[Ingmar Bergman sull'evidenza della finzione cinematografica in Persona]
Elisabeth Vogler (Liv Ullmann) è un'attrice depressa che si è chiusa in un completo mutismo. Alma (Bibi Andersson) è la loquace infermiera che si prende cura di lei per risollevarla dall'apatia. Nelle oniriche movenze del prologo del film la finzione del cinema esibisce ed accosta inquietanti immagini di morte e stranianti simbolismi (il proiettore, la pellicola, i chiodi nella mano, il bambino che tenta di afferrare l'immagine di una donna). Proprio la morte (la visione della morte) è il primo elemento a scatenare una reazione in Elisabeth: le immagini sanguinose diffuse da un telegiornale, infatti, la sconvolgono visibilmente ("La tensione tra le parti aumenta di ora in ora, il governo vietnamita, sostenuto dagli americani, è costretto a fronteggiare continue e sempre più sanguinose manifestazioni di piazza. Le alte gerarchie sacerdotali buddiste fanno leva sul malcontento dilagante nei vari strati della popolazione per uno stato di guerra di cui non si vede la fine, onde forzare la mano al governo ed ottenere l'accettazione delle proposte avanzate. In certi casi le manifestazioni hanno assunto i caratteri di una vera e propria rivolta armata, che ha provocato sanguinosi scontri e numerosi morti e feriti. Lo spargimento di sangue non è causato soltanto dagli atti di sabotaggio: il fanatismo, infatti, induce molti di questi religiosi a darsi fuoco nelle strade e nelle piazze, convinti, con questo gesto di inaudita crudeltà, di richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale sulla lotta che essi stanno conducendo. È, questa, la crisi più grave che si sia verificata dall'inizio del conflitto armato. Il governo americano è seriamente preoccupato per la piega che gli avvenimenti stanno assumendo e sta cercando con ogni mezzo di fare opera di pacificazione tra le parti. È indubbio che se non verrà trovata presto una soluzione, sia pur scendendo a dei compromessi, tutto il fronte verrebbe messo in pericolo da questi tumulti che sconvolgono le retrovie. D'altra parte non si può certo restare impassibili di fronte a spettacoli così raccapriccianti, che non possono essere dettati altro che da un'imponderabile esasperazione e da un cieco fanatismo. È difficile per gli occidentali comprendere a fondo l'animo di queste popolazioni che sanno così stoicamente votarsi alla morte"). La dottoressa (Margaretha Krook) che cura Elisabeth, consapevole che l'ambiente dell'ospedale non giovi allo stato d'animo della paziente, decide di trasferirla per un po' di tempo, insieme ad Alma, nella sua casa al mare: "Credi che non ti capisca? Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere. Essere in ogni istante cosciente di te e vigile. E allo stesso tempo ti rendi conto dell'abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa: provoca quasi un senso di vertigine il timore di vedersi scoperta, vero? Di vedersi messa a nudo, smascherata, riportata ai suoi giusti limiti, poichè ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia. Qual è il ruolo più difficile? Togliersi la vita? Ma no, sarebbe poco dignitoso, meglio rifugiarsi nell'immobilità, nel mutismo, così si evita di dover mentire. Oppure mettersi al riparo dalla vita, così non c'è bisogno di recitare, mostrare un volto finto, fare gesti voluti. Non ti pare? Questo è ciò che si crede, ma non basta celarsi, la vita si manifesta in mille modi diversi ed è impossibile non reagire. A nessuno importa sapere se le tue reazioni sono vere oppure false, sincere o bugiarde: solo a teatro il problema si rivela importante, e forse neanche lì. Io ti capisco, Elisabeth, capisco il tuo silenzio, questa tua immobilità e perchè tu abbia elevato a sistema di vita la tua assurda apatia. Capisco e quasi ti ammiro. Secondo me devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo, finchè essa non perda ogni interesse e abbandonarla così, come sei abituata a fare, passando da un ruolo all'altro". Al sole e all'aria del mare, nella quiete della villa, Elisabeth si scioglie e trova con Alma un vivido contatto umano: le due donne iniziano a raccontarsi e confrontarsi, a comprendersi intimamente, fino a specchiarsi l'una nell'altra. Alma comunica incessantemente, è un fiume in piena di parole, Elisabeth esce dall'apatia comunicando con la mobilità degli sguardi e dei gesti, i sorrisi, l'attenzione, la curiosità e la riflessione: a suo modo, senza l'uso della parola, un identico fiume in piena di ricettività e trasmissione, come le sottolinea la stessa Alma in un paradossale ribaltamento di gratitudine tra infermiera e paziente ("E pensare che molti, parlando di me, hanno detto che sono brava ad ascoltare. Strano, non è vero? Nessuno si era mai degnato di ascoltarmi, perchè tu è indubbio che mi stai ad ascoltare: anzi, direi che sei la prima persona che mi ascolta. Che ci troverai, poi, di tanto interessante? Potresti leggere un buon libro, invece. Eh, già, quanto chiacchiero... Non ti annoio, vero? Fa così bene parlare, dà un senso di calore. Credo di non essere mai stata così bene in vita mia"). I progressi di Elisabeth sono tangibili e costanti come il sottile ribaltamento di ruoli che investe poco a poco le due donne, riflessi di un suggestivo ed ipnotico gioco di specchi in cui i contorni dei loro volti e i profili delle loro vite si (con)fondono l'uno nell'altro. "Vorrei essere come te", confessa Alma ad Elisabeth, "sai che cosa ho pensato quella sera dopo aver visto il tuo film? A casa mi sono guardata nello specchio e mi sono detta: "Le assomiglio!". Non fraintendermi, tu sei molto più bella, ma ci assomigliamo. Credo che riuscirei anche a trasformarmi in te, interiormente intendo, se facessi uno sforzo. Saresti capace anche tu di trasformarti in me, vero? Però la tua anima è troppo grande e cercherebbe di evadere". Poi qualcosa si incrina: fuse in una sola persona, infatti, le due donne si allontanano istantaneamente l'una dall'altra per riprendersi le proprie identità. Alma, in macchina per arrivare all'ufficio postale e spedirle, legge segretamente le lettere scritte da Elisabeth alla dottoressa (e, in una sublime sequenza, sconvolta dopo la lettura, fissa apaticamente la propria immagine riflessa sulla superficie di un laghetto: la riflessione/rifrazione da sè si compie nella raggelante consapevolezza dell'illusione, sottolineata dalla spietata brutalità della lettera di Elisabeth): "Mia cara, vorrei vivere sempre così: tacere, vivere isolata, ridurre le proprie necessità, sentire l'anima malandata cominciare a raddrizzarsi. Alma si occupa di me e mi vizia in modo commovente: credo che si trovi a suo agio e che mi sia molto affezionata, direi quasi innamorata di me in modo inconscio ed incantevole. D'altronde è divertente studiarla: a volte piange su vecchi peccati, una specie di orgia occasionale con un giovane sconosciuto e conseguente aborto. Si lamenta perchè le sue idee sulla vita non coincidono con le sue azioni". Tornata da Elisabeth, Alma non ha più voglia di parlare, la coscienza esplode e, come nel prologo, la pellicola si strappa e l'immagine brucia: il cinema (com)e la morte. Alma riprende a parlare tranquillamente, ma non è più la stessa: prende le distanze da Elisabeth indossando gli occhiali da sole (mai utilizzati prima perchè per leggere aveva bisogno di quelli da vista), un filtro per proteggere l'intimità della propria natura tradita, a sottolineare, oltre tutto, il riappropriarsi del proprio ruolo, quello di infermiera. Le chiede di parlare, di dire qualunque cosa, le confessa la sua delusione per il contenuto della lettera, la provoca, le urla il proprio disprezzo e, finalmente, proprio quando la discussione degenera, Elisabeth si impaurisce e parla, dandole della pazza. Ma Alma esagera, l'amarezza e il cinismo delle sue parole feriscono Elisabeth altrettanto profondamente, allontanandola di nuovo: "Deve essere proprio così? È veramente così importante non mentire, dire la verità e trovare sempre le parole giuste? Si può vivere senza parlare per non dire nulla? Si può mentire trovando delle spregevoli scuse? Non sarebbe meglio abbandonarsi alla pigrizia, all'ipocrisia? Forse si diventerebbe persino migliori se ci si accontentasse di essere come si è. Ma tu non capisci quello che dico: chi è come te è irraggiungibile. La dottoressa dice che sei sana di mente, ma io mi chiedo se la tua follia non sia una delle peggiori. Fingi così bene di essere sana che tutti ci credono. Tutti meno io, perchè so quanto sei corrotta". Le domanda, in lacrime, di perdonarla, mentre le dissonanti magie della splendida colonna sonora di Lars Johan Werle contrappuntano inquietantemente la definitiva frattura tra le due donne e le rispettive solitudini. Alma costringe Elisabeth ad affrontare i traumi che le hanno segnato l'esistenza, dal fallimento del matrimonio alla maternità non desiderata: Bergman ce li mostra rievocandoli, identici nei contenuti, da entrambi i punti di vista, prima fissando l'inquadratura sul volto di Elisabeth a scrutarne ogni impercettibile reazione dell'animo, poi su quello di Alma, glaciale ed incalzante con le sue parole, in un tripudio di campi e controcampi, contrappunto semantico al ribaltamento di ruoli che ha investito i personaggi nell'arco della vicenda. Poi, però, in un straordinario crescendo drammaturgico che deflagrerà nel memorabile finale, un nuovo corto circuito: fino, nuovamente, prima del buio definitivo, alla lampada che brucia e alla pellicola che muore. L'opera più teorica e vitale, nonostante la straniante spettralità di atmosfere e vicenda, del cinema di Bergman: girata nell'estate del 1965 nell'isola di Fårö (sul cui set sboccerà l'amore tra il regista e Liv Ullmann) ed ammantato dal magnifico bianco e nero di Sven Nykvist, che esalta suggestivamente ombre, luci, sagome, contorni, fino ad ogni minimo mutamento degli stati d'animo, Persona costituisce una meravigliosa riflessione sul ruolo dell'arte ed i compiti dell'artista, dove il conflitto tra apparenza (Elisabeth, l'attrice) ed essere (Alma, cioè anima) si inscrive nell'analisi psicologica (di derivazione junghiana, come evidenziano sia Guido Aristarco in I sussurri e le grida che Sergio Trasatti nel Castoro dedicato a Bergman) sulle maschere "indossate" dai personaggi nel film (l'evidenza della finzione, il ribaltamento di ruoli), riflessioni che Bergman aveva già anticipato durante alcune sue conferenze alla Svensk Filmindustri e poi pubblicate successivamente alla realizzazione del film (prima nel numero autunnale del 1966 di Drama Review e poi come introduzione alla sceneggiatura di Persona): "Con magnifico ardore gli artisti proiettano a se stessi e ad un pubblico sempre più distratto immagini di un mondo al quale non interessa più ciò che loro desiderano o pensano. In alcuni paesi gli artisti sono puniti, l'arte è considerata pericolosa, viene soffocata o eterodiretta. In tutti gli altri, tuttavia, l'arte è libera , spregiudicata, irresponsabile; l'attività è intensa, quasi febbrile, a guardarla appare simile alla pelle di un serpente ricoperta di formiche. Il serpente è morto da tempo, è sazio e svuotato del suo veleno, e la sua pelle è ricoperta di vita brulicante" (Ingmar Bergman: il cinema, il teatro, i libri - a cura di Roger W. Oliver - Gremese Editore). Capolavoro.
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