Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Bergman può piacere o non piacere, ma colpisce. E Persona, garbi o meno, colpisce. Dopo un preludio psichedelico in cui la sperimentazione visiva ed espressionista si declina sui registri di un’indagine intrapresa alle origini dell’enigma, tra lanterne magiche dalle quali sembra provenire la storia e incubi mai dimenticati di un obitorio opprimente, l’attenzione si catalizza sulla ricerca del dialogo tra una loquace e ferita infermiera e una attrice votata al silenzio. Fondato sulla contrapposizione e sull’amalgama tra i volti riflessi da luci d’inverno come in uno specchio tra i sussurri impercettibili di Liv Ullman e le grida continue di Bibi Andersson, Bergman non vuole spiegare, ma semplicemente esporre: e nella sua concezione l’esposizione si dirige nell’espressione problematica della tesi bergmaniana.
Qui il tema è confuso, sfuggente, insinuante: e se apparentemente la vicenda delle due donne può sembrare ovviamente reale, la cornice nella quale si inserisce (dal prologo allucinogeno al finale ciclicamente scontato, dato il principio) appartiene al mondo etereo e scivoloso del sogno che non muore all’alba. Difficoltoso qua e là per la sua struttura enigmatica, si affida a due attrici che si sacrificano e si completano, alla ricerca di una sintesi comune, analizzando loro stesse. Per niente lieto, inquieto quanto basta, è il manifesto del nuovo cinema bergmaniano, e raggiungerà un suo livello maggiore (per quel che riguarda la mia sensibilità cinematografica) con il successivo Sussurri e grida, altro film in cui le donne (verso cui l’autore ripone una fiducia condizionata) si confrontano con i fantasmi del loro passato (e del loro presente e futuro) senza speranza alcuna.
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