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Persona

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Persona

di moonlightrosso
10 stelle

Un'indagine perfetta e disturbante sulle contraddizioni dell'animo umano.

Una delle opere più sofferte e complesse della filmografia bergmaniana, pensata dal cineasta svedese durante un suo lungo ricovero ospedaliero che lo porterà a sposare una diversa concezione dell'arte, intesa non soltanto come bisogno alimentare dello spirito ma anche come ricerca necessaria di nuove forme di espressione.

"Persona" è la storia di Elizabeth Vogel (Liv Ullmann), un'attrice teatrale di preclara fama, colta da un'improvvisa crisi di riso isterico mentre sta recitando in pubblico l'"Elettra", per poi trincerarsi dietro un assoluto e incomprensibile mutismo. Accertato che la donna non risulta affetta da patologie di natura psichica, la clinica che l'ha in cura decide di affidarla all'infermiera Alma (Bibi Andersson), per trascorrere con lei una breve villeggiatura nell'isola di Faro, a nord della penisola svedese.

La personalità elementare e ciarliera di Alma (emblematico il suo nome), fatta di aspirazioni semplici (un fidanzato con il quale formare una famiglia con dei bambini di cui occuparsi; gli esami da infermiera superati con il massimo dei voti; un lavoro appagante che le consente di rendersi utile al prossimo) si incontra e si scontra con il silenzio di Elizabeth. Un silenzio che con il trascorrere del tempo diverrà sempre meno afflato e sempre più strumento per far riemergere momenti della vita di Alma, la quale nella sua presunta incrollabile realtà piccolo-borghese aveva rimosso o cercato di rimuovere (l'amore di gruppo con un'amica e altri due giovani in spiaggia, la cui descrizione si ferma, nel doppiaggio italiano, ad "abbracci animaleschi"). Il silenzio sarà inoltre il miglior alibi di Elizabeth per dismettere quella maschera (la c.d. "dramatis personae") che l'attrice costantemente indossa non solo per recitare ma anche per vivere, sentendosi ed essendo lei stessa "personaggio" prima che "persona". In una scena magistralmente ripetuta due volte, Elizabeth rivelerà la sua natura corrotta, cinica ed egocentrica; qui confesserà per bocca di Alma, ora in veste di voce della coscienza, ora in qualità di ideale "alter-ego", una maternità agognata unicamente per conformarsi alle convenienze sociali ma che ben presto si trasformerà in paura delle responsabilità, della deturpazione del proprio corpo e del possibile affievolirsi del suo successo. Un lucido delirio che la porterà al desiderio di partorire un figlio nato morto, finalizzato ad accrescere il suo ego e il suo malato risalto personale.

A conclusione del suo percorso, Elizabeth si rimetterà a parlare proferendo un'unica parola: "nulla", come il nulla della sua interiorità e degli ideali in cui crede; un nichilismo e un egocentrismo perverso ai quali inconsciamente Alma aderisce e ai quali non saprà ribellarsi, come dimostrerà la reazione disperatamente violenta nei confronti di Elizabeth.

Due individualità che per destino ineluttabile saranno destinate non solo a convivere ma addirittura a fondersi in un'unica "persona" nell'ormai celeberrima immagine sdoppiata e dai toni squisitamente orrorifici del volto dell'attrice, per metà Elizabeth, per metà Alma. Totalmente disinteressato a un'eventuale relazione saffica, peraltro accennata, Bergman richiama echi kierkagardiani e rievoca trasfigurazioni kafkiane per un'indagine sull'animo umano nelle sue sfaccettature e nelle sue contraddizioni, come contraddittoria è stata la sua vita, perennemente in bilico fra conformismo e trasgressione, religiosità e ateismo, pragmatismo e utopia, sensibilità e cinismo.

I tradizionali chiaroscuri della fotografia di Sven Nyqvist, qui quanto mai ideale prosecuzione immaginaria e immaginifica di Bergman, si alternano a taglienti contrapposizioni di bianco e di nero in un quadro allucinato e allucinatorio che farà da apripista per il non meno disturbante rosso acceso di "Sussurri e Grida" (1971).

Un animo umano retto dal caos e dall'indecidibilità, iconizzato in quell'affastellarsi di immagini sconnesse nella memorabile parte iniziale, con il sottofondo di una colonna sonora sperimentale e quasi dodecafonica a firma del per noi sconosciuto Hans Johann Werle e che il nostro Ennio Morricone non deve aver ignorato per i brani dell'uccello argentiano o della lucertola fulciana. Con dinamica helzapoppiniana ci aggrediscono senza soluzione di continuità e senza alcuna possibilità di difesa: lo scorrere della pellicola di un film che sfrigola e che brucia; l'ombra di un pene eretto (tagliata nella versione italiana); un cartone animato proiettato all'incontrario; una delirante comica muta dominata da personaggi macabri (fatta girare da Bergman per il suo "Prigione" (1948)); una tarantola; mani crocifisse. E poi ancora: sgozzamento e squartamento di un cervo (o di un capriolo); anziani che giacciono morti sul tavolo di un obitorio; un fanciullo, il figlio di Elizabeth, che si alza per idolatrare l'immagine della madre divisa a metà con il volto dell'infermiera Alma. E poi bianco, bianco, tanto bianco allucinato sul quale si sovrappongono le scritte nere dei titoli di testa.

Liv Ullmann e Bibi Andersson, entrambe attrici di impostazione e origini squisitamente teatrali e con le quali Bergman condivise vita professionale e sentimentale, ci danno le migliori interpretazioni possibili di Elizabeth e Alma, a contrasto con le due "non persone" del film, come la voce fuori campo del marito di Elizabeth, che si rivolge ad Alma come se parlasse alla moglie e il ragazzo della scena iniziale (il figlio della coppia), raffigurato unicamente come efebica fisicità.

Consapevolmente inserito nel contesto storico (ne sono un emblema le immagini mostrate degli orrori del Novecento come il bonzo che si dà fuoco a Saigon per protestare contro la discriminazione religiosa e il bambino che alza le mani nel rastrellamento nazista del ghetto di Varsavia), Bergman evita di prendere qualsivoglia posizione al riguardo, come così pure nella contrapposizione di ceti sociali fra la privilegiata Elizabeth e la popolana Alma, esibendola come un mero dato di fatto (il tema ritornerà anche nel testè citato "Sussurri e Grida").

Un capolavoro assoluto di cose dette e soprattutto non dette, fatto di sole tre scenografie: la clinica psichiatrica, la casa di Elizabeth e l'isola di Faro dalle atmosfere angosciose e quasi aliene e nella quale Bergman sceglierà di ambientare altri lavori, nonchè di trascorrere gli ultimi anni della sua vita.

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