Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
La vera storia, i veri personaggi di questo splendido film sono racchiusi in una parla sola: ambiguità (che è un pregio, non certo un difetto). Chiedersi chi sia Elisabeth quindi, non aiuta a sciogliere l’enigma poiché Persona è la punta emersa di un iceberg del quale viene demandato a noi scoprire tutto il sommerso, interpretarlo e dargi un senso.
“La sequenza iniziale di Persona (una delle più famose di tutto il cinema fin qui prodotto) è un frenetico montaggio di piani eterogenei la cui esposizione sfida la persistenza della retina.” (Jacques Mandelbaum su Cahiers di cinema, 2007)
Persona, ovvero il cinema nel cinema[1] dove le due donne, il bambino e il marito (le persone che popolano la pellicola) sono presenze/assenze, residui narrativi che si intersecano non solo con i fotogrammi fissi ma anche con le aggiunzioni mai pleonastiche e spesso ermetiche(e comunque sempre fortemente significative – fondamentali direi -) nel percorso narrativo del racconto che possono però anche rischiare (e sarebbe un peccato) di diventare per gli spettatori un po’ distratti, un vero e proprio rompicapo difficile da districare a causa della loro (solo apparente) illogicità consequenziale.
Un film fatto di niente, scrisse a suo tempo Liliana Cavani, che è però il risultato di un paziente lavoro di approfondimento e di rifinitura. E’ insomma uno di quei film che indicano ai registi vie nuove per tentare nuove possibilità di espressione”.
Questo viaggio nell’inconscio parte subito con un prologo davvero sconvolgente che condensa in pochi minuti non solo la storia de novecento, ma anche quella del cinema e della deperibilità delle immagini che produce[2].
Persona è dunque un’opera che parla della reversibilità delle apparenze e del potere ammaliante che il cinema produce attraverso ogni suo singolo fotogramma ma è, al tempo stesso, anche una potente metafora di molte altre cose non meno importanti che espone (ma più spesso abbozza solamente) grazie a quella sua struttura così particolare che altro non è se non lo scheletro non solo della storia che viene narrata, ma anche delle molte altre che, senza soluzione di continuità, si dipartono (metaforicamente, appunto) da quella principale.
L’ambiguità del film e la sua polisemia (che cosa si deve leggere sul volto impassibile di Elisabeth Vogler? Che cosa si nasconde dietro un suo trasalimento, un suo sorriso, un suo silenzio?) ci trascina da subito dentro il labirintico vortice delle interpretazioni: un labirinto dove è facile perdersi se ci si ferma a una sola interpretazione considerandola esaustiva (e questo sarebbe un grave errore perché finirebbe per impedire la messa in moto di una disponibilità - sempre necessaria in opere complesse come questa - a cercare di decifrare tutte le altre chiavi di lettura che la pellicola comunque suggerisce). Non è certamente semplice fare questo sforzo perché si è in parte deviati (meglio dire portati fuori strada) dall’apparente trasparenza con cui il film si presenta sullo schermo: inquadrature semplici; attacchi e stacchi ritmati e belle immagini che sono però solo “apparenze” ingannatrici: qui infatti i personaggi non hanno un peso come esseri “reali”. Sono, al contrario, solo “pretesti” utilizzarti per dare senso al filo conduttore del racconto o, per meglio dire ancora, a una struttura –pensiero che Bergman delinea solamente come semplice “tracciato narrativo” per poi, come ho già detto prima, demandare allo spettatore il compito di integrarla mettendo in movimento le proprie intuizioni/sensazioni e il proprio intimo sentire..
I fatti compaiono di rado, sono accennati, sintetizzati e ridotti quasi a semplice apparenza. Più spesso ancora, si traducono semplicemente in gesti, oggetti o luci. Essenzialità totale insomma, recitazione di elevata qualità (al calor bianco si direbbe) e a volte quasi neutra , masochistica, ma sempre di elevatissimo gusto e consistenza.
La struttura chiave del film è dunque la fusione, il caos, l’annientamento tormentoso dell’inappellabilità. Con l’uso dei bianchi saturi, i cambi repentini di direzione della colonna sonora, il consumarsi della pellicola che prende fuoco, lo svanire delle anime, la metamorfosi dei corpi e la nascita di una impossibile chimera priva di speranza, il regista si cimenta qui in una delle più potenti evocazioni del male così come fu sperimentato nel corso del XX° secolo con l’attuazione dello sterminio di massa che non fu soltanto appannaggio del nazismo (i riferimenti che alcune immagini suggeriscono ci rimandano non solo ai lager o al ghetto di Varsavia ma anche al Vietnam).(Adriano Aprà)
Il suo (e questo titolo in particolare) è un cinema profondo e problematico pieno di dubbi e di domande, di interrogativi aperti che esigono una risposta ai quali solo il pubblico o i recensori accreditati possono provare a dare un ipotetico riscontro (se sarà possibile farlo e non è mai una cosa certa) e forse è proprio questo il suo valore aggiunto che è insito proprio nella proposta della questione esistenziale collocata però in un contesto storico portato verso altre fascinazioni piene di dubbi e di contraddizioni, come giustamente sottolinea Trasatti nel Castoro interamente dedicato al regista.
Rimettendo in discussione la vocazione del cinema come semplice testimonianza, Bergman più che in ogni altro suo film, si è dunque esposto qui al rischio di costruire un cinema che osserva il disincanto del mondo e il fallimento dell’umanità che erano in quel momento sicuramente i suoi crucci maggiori ed anche l’evidente causa primaria di quella disperazione profonda che lo stava attanagliando alla gola..
Persona è allora grazie al suo particolare modo di raccontare la realtà, soltanto la punta emersa di un iceberg del quale solo noi possiamo provare a decifrare tutto il sommerso che si porta dietro, interpretarlo e dargli un senso compiuto.
Dentro a questo conflitto fra l’essere e il sembrare dove aleggiano i fantasmi di un mondo ormai in disfacimento con i loro inquietanti messaggi di morte, c’è indubbiamente molto non solo di Freud ma anche di Jung (l’idea della “maschera”, del suo utilizzo sia nell’ arte che nella vita; il rapporto tra inconscio individuale e inconscio collettivo). Reduce da un periodo di crisi e di forte depressione, Bergman con questo cupo dramma psichiatrico sul tema del doppio (un doppio che diventa pretesto per effusioni spettrali col quale traccia per la prima volta, un ritratto introspettivo un po’agghiacciante del rapporto fra due donne o forse addirittura fra le donne in generale) sembra dunque voler dare sfogo a tutta la sua angoscia non solo di stampo esistenziale.
La storia è presto detta se ci affidiamo solo alle parole: qui, una famosa attrice di cinema e di teatro (una grande Liv Ullman) che ha subìto un forte choc, mentre è impegnata sul palcoscenico a recitare l’Elettra di fronte a un folto pubblico, si blocca all’improvviso, tronca la scena e smette di parlare (la “maschera” che cade?). Diventa insomma una presenza muta che sembra non conoscere più l’uso della parola.
A causa di questo trauma viene ricoverata in una clinica ma senza alcun successo. Per il protrarsi di questa invalidante patologia, una volta dimessa dall’ospedale, viene assegnata alle cure di un’infermiera, Alma (un’altrettanto straordinaria Bibi Andersson).
Più tardi, su consiglio di un medico, le due donne si trasferiscono in un un’isola perché si pensa che la quiete solitaria e la distensione di quel luogo semideserto sia l’ideale per facilitare la ripresa della paziente.
Ma intanto uno strano rapporto comincia a stabilirsi fra le due donne. Alma, l’infermiera (anche il nome è importante nell’economia dell’opera) parla, parla e ancora parla e a furia di parlare, si lascia andare a molte intime ammissioni e in qualche modo si confessa. L’altra, l’attrice che ha smesso di parlare, continua invece a tacere ma assorbe tutto quello che l’infermiera dice, al punto che, gradualmente, la personalità di Alma finisce per sovrapporsi alla sua. Le due identità oscillano, si integrano, si confondono, diventano intercomunicabili fra loro, si manifestano in forme equivoche e crudeli, fino all’oltraggio, al bacio vampiresco che denuncia quasi la presenza di un’attrattività fisica sottesa[3]: un eros narcisistico-omosessuale che in definitiva genera solo morte[4].
La perversione stessa del rapporto diventa una sfida (anche per il pubblico) con la sua sensualità morbosa, la mortificazione lacerante, l’opacità psicologica e lo smarrimento kafkiano: è proprio nel contatto con l’attrice che si ostina a rimanere muta che la linearità psicologica di Alma si sente costretta a riportare a galla dalla sua memoria episodi ormai rimossi e a rinnegare senza volerlo, la sua normalità precedente.
Quei lunghi, intimi racconti di vita privata, che comprendono la confessione di quell’'esperienza sessuale di gruppo[5], consumata in riva al mare, invece di riscuotere la paziente dalla sua apatia, finiscono per creare una sorta di e sovrapposizione un po’ confusa che stabilisce una sorta di uguaglianza paritetica fra le due donne (anche Elisabeth nasconde un pesante segreto, quello del rifiuto di una maternità indesiderata, forse fra le principali cause del suo attuale stato).
Ciò che risulta audace però non è tanto la confessione di Alma quanto invece il modo in cui Bergmanriesce a impaginare la sequenza. Qualcosa nella fissità immobile di quella inquadratura, combinata con le parole della donna che alternano tormento e gioia, consente al pubblico di dimenticare (o passare in sott’ordine)i quello che lo schermo riproduce e privilegiare invece ciò che i sensi e l’immaginazione riescono a renderglisi palese: il calore e la luce abbagliante del sole, il sapore acre del sudore, l’odore della salsedine marina e lo sgretolarsi della sabbia sulla pelle accaldata di quel groviglio di corpi infoiati. E’un momento davvero straordinario: la conferma che per lui il cinema è soprattutto un mezzo che si esprime attraverso le immagini persino quando queste sono tutt’altro che visibili e sembrerebbe invece che stesse privilegiando le parole.(Adriano Aprà)
Al grido di “io voglio amare” Alma diventa allora Elisabeth...[6] Forse si tratta solo di un’allucinazione ma lei deve fuggire, allontanarsi da quel silenzio che la opprime e in cui intravede una impossibilità d’amore così definitivamente spogliato di umanità, da a condurre all’autodistruzione.
Nel dominio dell’irrazionalità, che spesso torna ad irretirlo (e ad ispirarlo) Bergman però non sfoggia qui una filosofia d’accatto tutta esteriore, ma ostenta invece una coerenza cocciuta che lo porta ad osare l’impossibile.
Ancora una volta con questa sua opera maiuscola, il regista porta di nuovo in primo piano anche un tema che ricorre spesso nel suo cinema e che per lui è quasi un’ossessione: il silenzio di Dio (una lacerazione già magistralmente tratteggiata in Luci d’inverno) che qui però è associato all’assordante silenzio dell’inconscio che mina spesso anche la nostra vita: non più un disagio vissuto nel privato ma un malessere che diventa un problema che riguarda tutti e che di conseguenza diventa universale e come tale, intollerabile di fronte alle brutture di un mondo - e il novecento ne è stato pieno - che già allora non sembrava più essere fatto a misura d’uomo).
E’ proprio in questo senso che l’opera acquisisce allora la forza dirompente di una metafora (quella a cui ho accennato prima), una metafora della (e sulla) condizione umana (riferita soprattutto agli anni in cui questa pellicola fu girata e il tempo non ha sopito poichè oggi fa ancora più paura).
Le sue radici storico-politiche sono qui molto precise, anche se ridotte a traccia (i tragici eventi del novecento che vengono presentati utilizzando due mezzi di comunicazione di massa: la televisione per il buddista che si brucia vivo, un gesto stigmatizzato però dall’anonima voce del commentatore televisivo che minimizza la spaventosità del più che drammatico avvenimento spostandolo nel limbo delle notizie giornalistiche di routine) e la fotografia (quella arcinota del bambino ebreo con le mani alzate di fronde alle SS sfruttata spesso per provocare reazioni solo emotive).
Dunque in entrambi i casi Bergman si serve di documenti preesistenti, non ricorre alla finzione della ricostruzione a posteriori ed è proprio così che riesce a metterne meglio in luce le radici di un male la cui condanna è confermata da verità che sono inconfutabili e proprio per questo un poco disturbanti mai che si intersecano magistralmente negli altri movimenti del racconto spesso un po’ più surreali:: qui dunque i due piani (sia l’individualità dei personaggi che la realtà crudele del mondo esterno) diventano davvero paritari, si confondono fra loro e la disperazione angosciata dei primi si fonde perfettamente con le lacerate contraddizioni della violenza bellica che ha dominato tutto il secolo passato e non si è certo estinta ora, esattamente come accade ai volti delle due donne che, assemblati insieme in un’unica inquadratura, sembrano voler assumere la forma di una nuova “maschera”, e questa è certamente un’altra delle tante provocazioni che il regista fa verso lo spettatore.
L’utopia che Bergman ha condensato nel nuovo ordine erotico che Elisabeth e Alma stabiliscono nell’isola[7] nel corso di quella breve estate nordica, è dunque - nella struttura del film - la metafora di una realtà diversa (ma non opposta) a quella della violenza dominante che insanguina il mondo e, razionalmente, lo sorregge: un regno del Nirvana, dove il conflitto dell’esistenza a volte rimane momentaneamente sospeso ma senza mai riuscire a lasciare il posto a quella pace assoluta tanto agognata.
Tutto molto complesso vero? ma non vorrei però essere frainteso poiché Persona può essere guardato (e parlo di chi va al cinema e non ha voglia di troppi rompicapi) ed apprezzato anche come un godimento puramente estetico. Ci si può insomma abbandonare (e lasciarsi travolgere) dalla bellezza avvolgente della fotografia, della bella immagine (anche se nemmeno questo nel cinema di Bergman è fine a se stesso ma sottende sempre a un percorso pratico strettamente connesso a un risultato complessivo corrispondente alla natura stessa del soggetto rappresentato), della gestione sapiente della luce, dell’inquadratura, dello studio dei volti, della magistrale interpretazione delle due attrici. Sarebbe comunque anche solo per questo, grande cinema.
[1] “In Persona non mancano, come è facile arguire già dal soggetto, sollecitazioni sulla neo-oggettività cinematografica, sui ‘film da fare’ ma già in pieno movimento creativo come è appunto questo. (Tino Ranieri)
[2] Lo schermo si apre mostrandoci due lampade di proiettori che si accendono lentamente, una striscia di pellicola che scorre nel proiettore producendo il suono tipico di quell’attrito, una luce che lampeggia su uno schermo bianco e l’iscrizione start in nero e a testa in giù. La cinepresa si sofferma poi su una immagine non meglio identificata e prosegue mostrandoci una serie di trattini bianchi che, su fondo nero, formano una zeta per poi farci vedere, cilindri metallici, un organo maschile in erezione, una sfilza di altri simboli numerici sovrapposti a immagini non meglio identificate,uno schermo saturo di luce, un effetto simile a palpebre che sbattono su un suono come di perforazione che accompagna la cinepresa verso uno schermo sul quale scorre la proiezione (alla rovescia) di un cartone animato che mostra un personaggio a testa in giù che – reiteratamente - ripete sempre lo stesso movimento. E ancora: una bobina che gira, un pezzo di pellicola che scorre, due mani bianche di bambino su sfondo nero che compiono gesti da prestigiatore, un’immagine bianca, l’iscrizione su quella superficie di un piccolo quadrato in cui è proiettato un frammento di film muto in cui è raffigurato un uomo che indossa un berretto da notte e viene inseguito da uno scheletro e un demone, una migale (tarantola), una mano che tiene ferma la testa di una persona sgozzata mentre si nutre di sangue, un coltello che trancia quella testa,.le viscere che emergono da sotto la carne sventrata, la palma di una mano nella quale un martello conficca un chiodo, tronchi d’alberi coperti dalla neve, le punte acuminate di una cancellata, una serie di cadaveri in un obitorio fotografati in primissimo piano (visi, mani, piedi), il volto di una donna anziana che all’improvviso apre gli occhi, un adolescente che si sveglia sotto l’impulso del trillo di una suoneria e che – una volta sveglio – indossa un paio di occhiali , comincia a sfogliare un libro di Lermontov e poi si gira verso la cinepresa tendendo la mano verso di essa. Nel controcampo che segue quello stesso bambino tocca una parete trasparente dietro la quale si sovrappongono alternativamente i volti di due donne (quelli di Bibi Andersson e di Liv Ullmann). Seguono poi i titoli di testa scritti in lettere nere su sfondo bianco in cui ogni immagine è separata dall’altra da un flash visivo e dove compaiono in successione, un bonzo che si contorce fra le fiamme, un fotomontaggio di due labbra montate in verticale, un bacino d’acqua, una foresta coperta di neve, delle rocce, un fotogramma di un film muto e i reiterati ritorni del volto del ragazzo e di quello delle due donne per proseguire poi con una dissolvenza un bianco che ci porta dentro a diventa una stanza bianca con una porta che si apre dalla quale entra un’infermiera (Bibi Andersson) che domanda: “Voleva vedermi, dottore?” Ed è a questo punto che inizia la proiezione della storia raccontata nel film. (Fonte “I maestri del cinema – Cahiers du cinema)
[3] La versione cinematografica distribuita all'epoca in Italia fu in parte censurata: nella sequenza iniziale, costituita da quel frenetico montaggio di immagini, fu oscura quella che mostra un pene in erezione, ma più grave ancora fu l’intervento fatto alla confessione di Alma riguardo a un rapporto sessuale in compagnia di un'amica e di due ragazzi, in spiaggia che era di gran lunga più esplicita di quanto non risulti dal doppiaggio italiano dell’epoca che rende tutto molto più “soft” e un poco fuorviante che invece nell’originale, si spinge molto oltre fino a parlare di "abbracci animaleschi".
[4] “(..) L’Eros orfico e narcisistico assorbe la realtà in rapporti libidici che trasformano l’individuo e il suo ambiente; ma questa trasformazione è l’atto isolato di individui unici, e come tale, genera morte. Perfino quando la sublimazione di questa nuova realtà non rinnega i propri istinti, ma al contrario, li riafferma.”. (Herbert Marcuse, “Eros e civiltà” – ed. Einaudi, 1964). Il mito dell’erotismo “pervertito” come forma utopistica di armonia e di denuncia della violenza esistente si ritrova anche in un altro film poco noto ma assai bello: Lilith la dea dell’amore di Robert Rossen.
[5] “Pensare che molti parlando di me hanno detto che sono brava ad ascoltare. Strano, non è vero? Nessuno si era mai degnato di ascoltarmi. Perché tu è indubbio che mi stai ad ascoltare”
[6] Tu insegui un sogno disperato
Questo è il tuo tormento
Tu vuoi essere, non sembrare di essere
Ma c’è un abisso fra ciò che sei per gli altri
E ciò che sei per te stesso
E questo ti crea un senso di vertigine
Per la paura di essere scoperto
Messo a nudo, smascherato
Poiché ogni parola è menzogna
ogni sorriso una smorfia
E ogni gesto, falsità (dalla sceneggiatura)
[7] “La donna, nella solitudine, non riesce realmente a sdoppiarsi scrive la Beauvoir. E’ soltanto quando le sue dita modellano il corpo di un’altra donna le cui dita modellano il suo, che si compie il miracolo dello specchio. Tra uomo e donna l’amore è un atto; ognuno dei due strappato a sé, diventa altro (…) Tra due donne l’amore è contemplazione; le carezze sono destinate meno ad impadronirsi dell’altra che a ricercarsi lentamente attraverso l’altra; il distacco è abolito, non c’è lotta, né vittoria, né disfatta; in un’esatta reciprocità ognuna è nello stesso tempo soggetto e oggetto, padrona e schiava (…) (Simone de Beauvoir –“Il secondo sesso” volume II) - Il Saggiatore -)
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