Regia di Florian Henckel von Donnersmarck vedi scheda film
Dopo aver gettato ai porci il proprio talento con l'inutile e patinato "The Tourist", opera, quella sí, senza autore e senza anima, il figliol prodigo Florian Henkel von Donnersmark, torna a pascolare nelle proprie floride valli. È un ritorno alle origini, ai temi che costituirono la base del successo strepitoso della sua opera prima "Le vite degli altri" che gli valse Oscar e dozzine di altri premi. Un ritorno gradito che gli consente di attingere alla corposa e traumatica esperienza bellica e politica del proprio paese per imbastire un film che, attraverso la crescita umana e artistica del proprio protagonista, ripercorrere 30 anni di storia tedesca. Nonostante l'importante cornice, mi sembra più corretto parlare di un film sull'arte piuttosto che sugli eventi recenti accaduti in Germania. La storia rimane in disparte o forse sarebbe più corretto dire che la storia con la S maiuscola sfiora solamente il protagonista. Il piccolo Kurt Barnert assiste, a distanza opportuna, all'annientamento di Brema da parte dei bombardieri alleati, ed è testimone inconsapevole dell'internamento dell'amata zia Elisabeth, rinchiusa in un ospedale psichiatrico e poi vittima dell'Eu-Aktion programmata dal Gemeinützige Stiftung für Heil- und Anstaltspflege per purificare la razza attraverso lo sterminio dei disabili psichici. Una volta adulto Kurt si imbatte ancora nei fantasmi del Reich allorché conosce un aguzzino, già membro delle S.S., ormai riciclato nei ranghi del S.E.D., un uomo capace di influenzare pesantemente la vita sentimentale del giovane e quanto mai legato alla sua stessa fanciullezza nella Germania Nazifascista ma del cui ruolo storico non riesce ad intuire l'importanza. La stessa fuga di Kurt dalla D.D.R. che avviene quand'egli è all'apice della propria carriera artistica avviene in una Berlino non ancora fisicamente divisa dal muro ma in procinto di esserlo. Kurt sembra dribblare gli avvenimenti storici con la facilità con cui Forrest Gump è in grado di prenderne parte. E l'arte in tutto ciò? L'arte è la vita e la ragione d'essere del giovane Barnert. E se egli è messo in disparte dalla storia, l'arte non lo è, troppo importante per essere ignorata da un potere feroce che sà fare della propaganda il proprio vanto. La pittura viene derisa dal partito nazista nella mostra itinerante "Entartete Kunst" che individua nell'artista un cancro appestante di vizi e idee intollerabili e nelle grandi correnti artistiche (espressionismo, cubismo etc) un nemico della moralità teutonica. I dipinti di Mondrian, Klee, Marc, Chagall, Kandinsky, Kokoschka, Munch vengono ridicolizzati da visite guidate che hanno lo scopo di accompagnare i visitatori verso la scoperta della purezza nell'arte tedesca e di smascherare l'arte degenerata. Dieci anni più tardi il nuovo regime modifica il tiro ma non la sostanza. Se l'arte nuova al soldo del Reich doveva celebrare la purezza della razza attraverso le architetture di Albert Speer, i fotogrammi di Leni Riefenstahl e le pennellate di Adolf Ziegler, l'arte nella Germania Democratica ha il compito di eliminare il classismo, rivendicare il ruolo centrale del proletariato nella vita del Paese ed aborrire ogni deriva borghese nell'atteggiamento dell'artista che non deve pensare come un "io" ma come un "noi", come un piccolo tassello nell'economia dell'ideologia socialista. L'arte di partito, la Kunst am Bau, il Realismo socialista, la trasmissione di un'educazione ideologica tramite murales e decorazioni architettoniche sono pane per le tasche del talentuoso Kurt finché egli scopre che nulla deve mettere le briglie al proprio "io". Il passaggio all'Occidente libero da dettami politici è quello che serve a Barnert eppur tuttavia ci vuole tempo e dedizione per creare un proprio stile in un'epoca che gira velocemente e dichiara superata ogni corrente ed ogni lavoro con straordinaria velocità. È questa la nuova schiavitù dell'arte, la necessità di trovare forme nuove di espressione per emergere in una selva sempre più insidiosa di artisti in erba che sperano di imporre il proprio giudizio. Se dunque l'arte tedesca è stata condizionata dalla politica fascista prima, dalle ideologie socialiste poi, e dal coevo liberismo occidentale, Donnersmarck sembra suggerire la sua affascinante tesi di un'arte che riesce ad eludere queste pericolose sovrastrutture umane ed eliminare ogni possibile servitù o pensiero filosofico del proprio autore, "un'opera senza autore", per l'appunto, perfetta in quanto tale e fortemente apolitica.
Florian Henkel von Donnersmarck realizza un film fiume ma decisamente scorrevole che ai margini del processo storico narra di "vite degli altri", travolte dalle onde di avvenimenti troppo grandi o da esse stesse trasportate senza senso e senza meta, vite mai in grado di bloccare o cambiare ciò che avviene intorno a loro. Von Donnersmarck ha sicuramente cambiato rotta al suo cinema, molto più ambizioso di prima e potente abbastanza da non farsi trascinare dalle onde del consumismo ma per farlo la marea l'ha dovuto sbattere sulle scogliere al di là dell'Atlantico per poi respingerlo bruscamente verso casa dove la storia, la lingua e i volti del proprio paese hanno contribuito a dare al suo lavoro una configurazione ben più precisa e autorevole.
Rassegna "I volti del destino" - Cinema S. Pietro - Montecchio Maggiore (VI)
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