Regia di Florian Henckel von Donnersmarck vedi scheda film
Opera senza autore di Florian von Donnersmarck scorre fluviale per 188 minuti e trent’anni di storia tedesca.
Liberamente ispirato alla vita di Gerhard Richter, artista tedesco nato a Dresda nel 1932, formatosi nella Germania sovietica e passato a Ovest per seguire le nuove teorie sull’arte, Opera senza autore di Florian von Donnersmarck scorre fluviale per 188 minuti e trent’anni di storia tedesca.
Film da vedere e valutare su livelli diversi, ha più anime e ognuna merita attenzione e vaglio critico,
qualche improbabile paragone con lo spirito e il valore di Heimat di Edgar Reitz letto qua e là sul web è francamente fuori registro, ma l’opera si difende con grande dignità.
Delle tre anime la più interessante è quella che fa un excursus (a volo di uccello, ma scorrono buone gallerie di immagini) sull’arte e le sue vicissitudini, a partire dall’ Entartete Kunst, l’arte degenerata che vide Goebbels disciplinatamente schierato al fianco di Hitler, artista prestato alla politica,nella condanna senza attenuanti a cubisti, espressionisti, dadaisti, astrattisti e primitivisti.
Una visita guidata alla Galleria d’arte del ‘900 del piccolo Kurt con la giovane zia è istruttiva in tal senso, propaganda ideologica a spese di Kirchner ed Heckel, Dix e Grosz, orripilanti detrattori del sano spirito tedesco, per non parlare di Kandiskji che vende un quadretto per duemila marchi, lo stipendio di un anno di un operaio tedesco!
Il passaggio dell’anima tedesca nel dopoguerra della DDR e fino alla caduta del muro alle pressanti sollecitazioni del realismo socialista ci dà un assaggio di lezioni ex cathedra in cui si dimostra che, allora come oggi, l’Accademia è serva del potere in tutte le sue forme e rappresentanti.
Murales inneggianti al sano spirito del lavoro operaio e contadino spaccano con i loro forti colori e le ardite prospettive, Kurt è ormai un uomo e deve guadagnarsi da vivere dipingendo in una Dresda che sta raccogliendo mattone su mattone per la ricostruzione dopo bombardamenti in cui intere famiglie sono state annichilite.
Vive e vegeta da sembrare addirittura immortale Herr Seeband(Sebastian Koch), protagonista assoluto con Kurt (Tom Schilling), il diavolo e l’angelo, il male e il bene, il vecchio e il nuovo.
Infine, ed è il terzo movimento, Kurt ormai trentenne, anche se ne dichiara ventisei perché l’Accademia li vuole giovani, approda nell’Occidente degli anni sessanta, a Düsseldorf, dove la libertà regna sovrana e l’Accademia è fucina di sperimentalismi non sempre apprezzabili, anzi a volte addirittura maniacali per eccesso di citazionismo (gli strappi di Fontana godono di grande seguito) ma comunque aperti al dibattito critico e alla guerriglia semiologica contro i linguaggi della società di massa, oltre che sinceramente motivati a ricostruire la cultura del paese sulla base di ideali democratici dimenticati da circa trent’anni.
Su questo discorso sull’arte, a cui von Donnersmarck dedica molto del suo impegno, da buon tedesco sempre sollecito, nel bene e nel male, alle sue sorti, s’innesta il discorso sulla storia che si aggancia così alla seconda e terza anima del film.
A questo punto subentra il romanzesco, il tocco meno riuscito dell’opera.
Si comincia con la storia del piccolo Kurt, figlio di agiata famiglia di Dresda, coccolato fino all’eccesso dalla stupenda zia Elisabeth (Saskia Rosendahl)che, ahimè, poiché suona nuda il pianoforte finirà in casa di cura, poi manicomio, poi Istituto Superiore di Eugenetica con sterilizzazione sotto le grinfie di Herr Seeband.
Infine in camera a gas, modello di dimensioni ridotte rispetto alle meglio note capaci di contenere tremila internati per volta, ad uso e consumo esclusivo delle ospiti dell’Istituto di Eugenetica.
Un “ti voglio bene” di una down nuda che entra a farsi la doccia di gas all’infermiera sulla soglia von Donnersmarck ce lo poteva risparmiare, ma tant’è, in 188 minuti qualcosa ci scappa.
Come pure scappa un po’ di attenzione al look delle protagoniste, zia, moglie e madre, che, necessariamente bellissime visti i vari nudi e scene di sesso che abbondano, non potevano esibire nulla che non fosse perfetto, bisognava vestirle e pettinarle al top, anche se dubitiamo che nella Germania post anno zero ci fossero atelier così attrezzati.
Tornando a Kurt, il ragazzo cresce e i nodi vengono al pettine.
Innamoramento, matrimonio, aborto, ricomparsa di Herr Seeband sotto altre vesti ma stesso prestigio e grandi mezzi, nulla manca e il ritmo tiene.
Fino al finale, la parte migliore, quella che, libera da strettoie didascaliche e narrative, esprime finalmente un discorso sull’arte che merita attenzione.
Arte come libertà, arte come senso della vita.
Il direttore dell’Accademia d’Arte moderna di Düsseldorf, che con altro nome altri non è che Joseph Beuys, brucia in classe i manifesti dei due premier al potere e nega ogni valore al voto.
Solo l’arte resta, e solo lei ci salverà.
Se mai qualcosa ci potrà salvare.
Kurt è di poche parole, nega ogni autobiografismo alla sua opera, ora che ha trovato la sua strada e il successo, meritato, gli arride.
Solo lo spettatore onnisciente sa cosa c’è dietro quei quadri copiati da fotografie del suo album e sporcati di nebbia.
Un mucchio di merda, quella che ha visto nella vita fin da piccolo.
Ma l’Arte vola alto sopra le storie e gli uomini.
Come le nuvole.
www.paoladigiuseppe.it
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