Regia di Florian Henckel von Donnersmarck vedi scheda film
Nonostante il suo primo film porti come anno di uscita il 2006 e risponda al titolo di Le vite degli altri, Florian Henckel von Donnersarck è con Opera senza autore al suo terzo film in 12 anni. Sono occorsi infatti ben 8 anni prima che il regista sia tornato a dare in pasto al pubblico una sua opera dopo i nefasti risultati di critica raccolti con The Tourist, in cui si metteva al servizio di due star egocentriche come Angelina Jolie e Johnny Depp. Il ritorno dietro la macchina da presa è stato favorito da una storia che gli ha permesso di raccontare ancora una volta le conseguenze derivanti dal passato della sua Germania e dalla biografia del pittore Gerhard Richter, che gli ha fornito elementi essenziali per un dramma che racconta di Olocausto e creazione ma anche di famiglia, paternità e maternità.
L’azione ha inizio a Dresda nel 1937 e vede in scena il piccolo Kurt, che in compagnia dell’amatissima (e bellissima) zia Elizabeth si reca in un museo e segue la presentazione della guida, attenta a marcare le differenze tra il concetto di arte che ha il regime nazista e quello che hanno gli artisti contemporanei, definiti degenerati. Qui, Kurt impara dalla zia cosa vuol dire realmente dipingere e cosa deve spingere a farlo. Il regime nazista conosce però presto la sua deriva più pericolosa e, da brava studentessa, Elizabeth è costretta a un incontro ravvicinato con Hitler che la spinge ad avere una forte crisi isterica. La famiglia a cui appartengono non sposa nessuno degli ideali nazionalsocialisti e l’ipocrisia formale che il regime impone mal si sposa con l’atteggiamento ribelle sia della giovane sia del padre di Kurt (costretto a indossare qualche scena dopo una spilla del Reich solo per assicurarsi un capitale in futuro). La crisi della ragazza è la molla per cui, dopo una visita medica, è internata in un ospedale psichiatrico.
Quella che dovrebbe essere una cura di due settimane per Elizabeth si trasforma in altro. Sono gli anni in cui il regime manda a morte o sterilizza gli imperfetti, in modo da non garantire loro una successione ed eliminare per sempre i geni non rispondenti ai canoni di perfezione della razza ariana. Il programma trova uno dei suoi massimi sostenitori in Karl Seeband, un ginecologo che non si fa scrupolo di sterilizzare le giovani donne per poi deciderne la morte qualche anno dopo nelle camere a gas. Dopo i bombardamenti del 1943, Elizabeth muore in una camera a gas: Seeband non paga mai per ciò che ha commesso neanche con l’arrivo dei russi e di un sergente che, caso vuole, gli sia riconoscente per quasi tutta la vita e lo protegga.
Lo scorrere del tempo porta rapidamente agli anni Cinquanta facendo incontrare in maniera beffarda il destino dei due uomini. Giovane studente di pittura all’Accademia, Kurt ha visto morire il padre suicida (la ricostruzione tedesca ha punito anche chi al nazismo aveva aderito anche solo per ragioni di convenienza negandogli ogni possibilità di reinserimento sociale) e si è fatto già le ossa lavorando nel mondo delle insegne e delle pubblicità quando conosce Ellie, abbreviazione di Elisabeth, studentessa di moda figlia di Kurt. In breve, i due si innamorano e vivono con uno stratagemma sotto il tetto di casa Seeband, che si trasforma quando la ragazza rimane incinta in clinica degli orrori.
La voglia di libertà, il matrimonio e il creare arte per se stesso e non su commissione (come sta facendo per il Museo di Storia) spingono Kurt ed Ellie a emigrare a Dusseldorf, dove il ragazzo (ormai trentenne) entra in contatto con un diversa percezione dell’essere artista. Mentre Karl, anch’egli trasferitosi qualche tempo prima, rientra prepotentemente nelle loro esistenze senza che il suo passato venga rivelato, Kurt si approccia all’arte concettuale, a quella materialistica e a quella performativa senza trovare mai una propria voce. La svolta arriverà nel momento in cui l’arresto dell’ex capo nazista del suocero, dopo decenni di latitanza, farà tornare alla sua mente le parole e la triste parabola della zia.
Costruito minuziosamente scena dopo scena e compostamente recitato, Opera senza autore si divide in due parti di egual durata dai sapori differenti. Mentre la prima parte è incentrata sul nazismo e sulle atroci verità che ancora oggi si porta dietro, la seconda parte va a indagare la concezione di ispirazione e di arte. La ricostruzione storica degli eventi precede in maniera cronologica, le varie date cruciali vengono sottolineate da una scritta in sovrimpressione e i personaggi appaiono per quasi tutta la vicenda immutabili.
Sono tutti in qualche modo vittime del potere di Karl Seeband, che mai dimentico dei tempi che furono esercita (in maniera subdola e prepotente) il suo comando su chi lo circonda. Inventa per esempio problemi ginecologici per la figlia, sottoponendola a un inutile aborto che le costerà (forse) la possibilità di divenire un giorno madre. Deride apertamente il genero sottolineando come, in un momento di sconforto per mancanza di ispirazione, il suo bianco su tela bianca sia innovativo. Tradisce la moglie e si mostra perfetto, inossidabile e attento alla morale. Nei suoi occhi non c’è mai un accenno di pentimento o di vergogna: sentimenti che lo assalgono in una sola occasione quando, rielaborando fotografie tratte da album privati, giornali o tessere, Kurt realizza le sue prime “opere senza autore” e mischia i volti di zia Elizabeth e del suocero. Seeband è metafora dell’Europa stessa: vecchia signora che, pur di fronte all’evidenza delle proprie colpe, non crolla e non confessa. Salvare una vita significa salvare il mondo stesso e Seeband crede di avere tale peso sulle spalle, è un prescelto che decide sul destino altrui ma, paradossalmente, non sul proprio.
La ricerca della propria ispirazione artistica in Kurt si tramuta in elaborazione del lutto. Riesce a trovare la sua strada quando, riappropriandosi dei ricordi della zia Elizabeth, ricorda che la bellezza risiede nel vero e che non bisogna mai abbassare lo sguardo. La coerente follia tedesca non si tramuta in sregolatezza, rischio che i ritratti sugli artisti corrono quasi sempre. Il genio di Kurt emerge in tutto il suo splendore dopo un lungo processo che lo porta esteticamente a contatto con più forme d’arte ma è soprattutto la figura del professore Verten a fargli capire che trovare appiglio nella sua esperienza e restituire la propria prospettiva sul mondo (ich, ich, ich). La riflessione di Donnersmarck sull’arte si può estendere su tutte le arti che conosciamo: cosa differenzia un autore da un altro se non la sua soggettività, il modo in cui guarda l’orizzonte e il peso delle esperienze che si porta dietro?
La zia Elizabeth per il piccolo Kurt è una sorta di figura materna da prendere come modello. È lei che lo inizia al mondo dell’arte ma è anche colei che pur facendo al piccolo da mamma non potrà mai biologicamente esserlo. Lo stesso destino sembra attanagliare anche Ellie Seeband, che a un secondo aborto spontaneo scopre quali danni abbia causato in lei quello che le ha praticato quasi in clandestinità il padre. Il tema della sterilità e della mancata procreazione diventa metafora della ricerca di originalità artistica da parte di Kurt (non a caso, le opere sono viste come figli) mentre diviene una sorta di persecuzione per Karl, che senza mai ammettere pubblicamente le sue colpe sente il cerchio intorno a lui stringersi ulteriormente.
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