Regia di Hope Dickson Leach vedi scheda film
"Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti." – Cesare Pavese, “la Luna e i Falò”, 1949
L'opera prima nel lungometraggio di Hope Dickson Leach, dopo alcuni corti ed episodi di serie tv, è un film potente, ruvido, commovente, in cui si scrivono lettere al cane (“Dai una leccata a mamma da parte mia.”) per non doverle scrivere al padre.
A parte il contesto spazio-temporale eretto sulle spoglie conseguenze dell'alluvione che colpì il Somerset nel 2014 (rimarchevoli ed azzeccati momenti “onirici”, stranianti, in realtà iperrealistici, che rimandano al prologo di braci ardenti, sputi, lacrime e sperma e ne sono prodromo) e il ripresentarsi ciclico ed endemico a livello locale di focolai infettivi di Mycobacterium bovis causante la tubercolosi bovina (TB) - e un quieto disperdersi contenuto di vacche da latte allo stato brado divenute bersagli -, quante volte è già stata raccontata questa - si, proprio questa - storia? Eh? Quante? E quante, così bene?
Ellie Kendrick [“Misfits”, e “Game of Thrones”: dopo aver sopportato, nei panni di Meera Reed, i musi e i grugni padremaronnici del fratellino Jojen (la cui simpatia è - spoiler: era - pari solo a quella di Jar Jar Binks, o di Kevin Spacey che allena la squadra di calcetto dell'oratorio) ed aver trascinato scarrozzandolo in giro sulla ghiaccia neve con una slitta di spago e rametti attraversando bufere e gelicidi come fosse un, ehm, Re(Gazzino), per mezzo Nord, Brandon Stark, il tumido e umido sprofondo inglese le fa solo il solletico], relativamente giovane - classe 1990 - ma/e “consumata” attrice, con un controllo del volto e del corpo invidiabile, e David Troughton, grandioso attore teatrale e televisivo (BBC), compongono due assoli, entrambi magnifici, magnetici, ognuno con le proprie istanze, accuse, scuse, recriminazioni e rimorsi, orbitanti attorno ad un unico, terzo centro gravitazionale, un punto di Lagrange dell'anima, danzando come boxeur attorno ad un argine/trincea in farsi e in fieri e già in disuso e in dismissione, e a una tomba fresca.
Il comparto tecnico-artistico è più che valido (fotografia: Nanu Segal; montaggio: Tom Hemmings; musiche: Hutch Demouilped). Impeccabile l'utilizzo di due tracce di (A) Silver Mt. Zion tratte da “He Has Left Us Alone but Shafts of Light Sometimes Grace the Corner of Our Rooms...” del 2000: “13 Angels Standing Guard 'round the Side of Your Bed” e “For Wanda”, per tutti i tassi, le mucche, i vitelli, i cani, le lepri e gli umani, “sparati” (region.) e non.
Un film prezioso, terribile, bello, in cui il dolore sedimentato si scioglie, deflagra, e, non esaurendosi (il pleonasmo del titolo entra in azione: i conti si pareggiano, le divergenze, i conflitti e le discordie si appianano, le discrepanze si livellano: un disastro naturale, la necessità d'amore), rifluisce: c'è un segno sulla parete, una riga scura, indica l'altezza massima raggiunta dall'acqua. C'è un segno sul soffitto, un fiotto spruzzato, un getto schizzato: è l'altezza massima raggiunta da palato molle, materia cerebrale e sangue.
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