Regia di Yorgos Lanthimos vedi scheda film
“I want to say one more thing: I’m really sorry about Bob!”
“That’s nothing serious.”
“No, it is. That critical moment we both knew would’ve come someday… Here it is, that time is now. You know what I mean!”
“No, I don’t.”
Steven Murphy (Colin Farrell) è uno stimato cardiochirurgo e padre di perfetta famiglia borghese: la bella moglie Anna (Nicole Kidman) è oculista, la figlia quattordicenne Kim (Raffey Cassidy) canta magnificamente in un coro e il figlio minore Bob (Sunny Suljic), nonostante porti con sfrontatezza i capelli lunghi e ascolti generi musicali da "ribelli" come punk e metal, sta per prendere lezioni di pianoforte.
Steven frequenta apertamente da qualche mese un ragazzo di sedici anni, un certo Martin (Barry Keoghan), il cui padre – dice il dottor Murphy alla moglie – era un suo paziente, morto in un incidente stradale. Il rapporto fra i due è molto strano, cordialmente teso, costellato di spontanei regali di lusso da parte del medico. La presenza di Martin si fa invadente e immotivata, almeno finché una mattina non avviene un fatto imponderabile: Bob non riesce ad alzarsi dal letto, impossibilitato all’uso delle gambe.
I medici cercano razionalmente una spiegazione, ma ogni esame, dall’MRI all’ECG passando per i raggi X, ha esito negativo. Non c’è una causa organica per il malessere del piccolo Bob. Martin non esita a rivelare a Steven, però, la sconvolgente ed incredibile verità: suo padre non è morto in un incidente, ma sotto i ferri chirurgici; e quello che sta accadendo è una forma di giustizia che investirà l’intera famiglia del dottor Murphy, a meno che questi non ne sacrifichi un elemento a sua scelta per pareggiare il conto…
“Having rules means that sometimes people break them and that means punishment.” [Yorgos Lanthimos]
Al suo quinto lungometraggio, l’autore greco Yorgos Lanthimos ha ormai lasciato la terra natia per stabilirsi a Londra, dove occasioni, mezzi produttivi, canoni stilistici e budget gli hanno consentito di mettere in piedi quella bellezza di “The lobster”, primo compromesso tra il suo stile glaciale ed uno più “internazionale”. Con questo “The Killing of a Sacred Deer” Lanthimos e il suo co-sceneggiatore Filippou tengono i piedi ancorati alla terra ellenica rivisitando la tragedia di Euripide “Ifigenia in Aulide”, ma regia e montaggio guardano a Kubrick come non mai, fra inquadrature alle spalle (dall’alto e dal basso), zoom lentissimi e carrellate ansiogene. Il nome del grandissimo Stanley viene fuori con facilità anche grazie alla presenza di una splendida Nicole Kidman (vista nel canto del cigno del regista americano “Eyes Wide Shut”, com’è giusto ricordare), ottimo contraltare di un Farrell sempre più bravo e selettivo.
Visivamente parlando, “The Killing of a Sacred Deer” ha di che farsi lodare, non c’è che dire; il disappunto nasce da una piccola deviazione dal percorso di Lanthimos, i cui film sono sempre ambientati in mondi (in)verosimili dove vigono regole “altre”. Qui troviamo, invece, un mondo (quasi) perfettamente razionale e lucido per quasi un’ora, per quanto sia quello di un’alta borghesia materialista, opprimente e controllante. Questo modello risulta totalmente e disarmonicamente sovvertito dall’incursione dell’irrisolto (per fortuna) personaggio di Martin, il quale, come in “Teorema”, mette a nudo impulsi e contraddizioni dei Murphy con la sua presenza maledetta e con l’attrazione esercitata sull’angelica Kim. Barry Keoghan, figlio di una madre eroinomane morta giovanissima, possiede lineamenti e sguardo inquietanti, ma questi non bastano a far uscire il suo personaggio così maldestramente suadente da una certa monodimensionalità.
Lanthimos e Filippou analizzano con questo film il tema del sacrificio da un’ottica mitica ed ancestrale, ragion per cui i dialoghi e le psicologie, dal momento in cui anche i personaggi stessi del film “accettano” le regole di Martin, appaiono assurdi, crudeli, fuori contesto. Ma il consueto black humor di Lanthimos in questa circostanza fatica ad emergere. È proprio la scarsa fluidità di questo passaggio dal quotidiano all’atavico il difetto principale di “The Killing of a Sacred Deer”, a mio avviso; da più parti è stato visto come un horror psicologico, ma la definizione castra le grandi ambizioni di Lanthimos, dal quale è lecito aspettarsi ben altra sottigliezza. Il suo film a seguire, presentato in questi giorni al Festival di Venezia, intitolato “The favourite”, si preannuncia assai diverso dalla precedente filmografia, il che probabilmente gli consentirà di rifiatare dalle critiche - talvolta poco benevole - che lo vogliono ormai troppo di maniera e compiaciutamente gelido.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta