Regia di Yorgos Lanthimos vedi scheda film
Un cardiochirurgo ha una famiglia apparentemente perfetta: moglie oftalmologa, figlia adolescente che studia canto, figlio più piccolo diligente e affettuoso. Quando un ragazzino, figlio di un ex paziente dell’uomo, entra prepotentemente nelle loro vite, la famiglia è costretta a una drastica svolta.
Il sacrificio del cervo sacro è senza ombra di dubbio il film più lineare e meno astratto – per quanto tutt’altro che banale e strettamente realistico – di Yorgos Lanthimos, regista greco già capace di inquietare e lasciare spiazzato il pubblico con opere del calibro di Kynodontas (2009) o The lobster (2015). Un film sulla religione come superstizione, innanzitutto, che tende a dimostrare l’impotenza dell’essere umano di fronte all’assurdo traslato sotto forma di credenza, di fronte alla sistematizzazione dello schiacciante volere del destino in qualsiasi veste di divinità, idolo o feticcio lo si possa considerare. Una prova apprezzabile per Colin Farrell e Nicole Kidman, i due protagonisti centrali, così come per gli interpreti di contorno Barry Keoghan, Bill Camp, Raffey Cassidy e Sunny Suljic; difficile però essere entusiasti della recitazione in un film nel quale, per esigenze di copione, la dizione è regolarmente piatta e priva di accenti emotivi e nessun attore si scompone neppure di fronte alle emergenze: ma Lanthimos vuole parlarci di una borghesia odierna fredda e sola, e come tale la dipinge nel suo film. Stranianti quindi le situazioni in luoghi pubblici (ospedali, strade) nelle quali compaiono esclusivamente i personaggi della storia, peraltro piuttosto ridotti numericamente. Ma, al di là di scelte più o meno discutibili e condivisibili, nella sceneggiatura che il regista ha scritto insieme a Efthymis Filippou c’è una falla logica non da poco: ed è quando Steven presenta a Matt il ragazzino con una palese menzogna che non ha alcun senso di esistere, visto che nel prosieguo della trama i tre dimostreranno di conoscersi già benissimo. La cosa migliore rimane invece la figura, luciferina e salvifica al tempo stesso, di Martin; ritmo in crescendo che prende vita dal primo incidente occorso a Bob, ma che viene azzoppato da un’altra scelta opinabile (ma a suo modo efficace) e cioè quella di spoilerare in una battuta verso la metà la seconda parte del film. Un Lanthimos differente, non troppo distante dai suoi consueti standard, indubbiamente più concreto e diretto; sceneggiatura premiata a Cannes. Mezzo voto in meno per la colonna sonora rumorista più volte oltre il limite del fastidioso. 7/10.
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