Regia di Sergio Citti vedi scheda film
Una squisitezza di rara bellezza del cinema italiano. Si consiglia vivamente di visionare l'intero film a digiuno (un po' per rispetto e un po' per empatia) e nella versione originale di 170 minuti. Voto: 10 succulento
Siamo a Roma. Siamo alla periferia della capitale, dove palazzoni grigi si stagliano mostruosamente contro il cielo. Sul ciglio di una strada quasi deserta un cagnone nero rovista tra i sacchi della spazzatura in cerca di cibo. «Pussa via!». Una pedata nel culo e la povera bestia è costretta a fuggire. Un'altra povera bestia, questa volta umana, inizia a setacciare i rifiuti al posto suo. Il randagio si allontana quanto basta per andare a fiutare altra immondizia sul marciapiede opposto. «Pussa via! Sciò!». Un altro randagio, anch'esso dalle sembianze umane, gli intima poco gentilmente di cercare gli avanzi da un'altra parte.
È così che Franco Citti e Ninetto Davoli, protagonisti di questo "squisitissimo" Minestrone in salsa Sergio Citti, si presentano allo spettatore. Una salsa dolce-amara, dato che si ride molto, e di gusto, anche se resta sempre un sapore aspro sul palato di chi guarda questa prelibatezza del cinema nostrano. C'è sempre qualcosa che va di traverso mentre si osserva l'odissea di questa brigata di morti di fame alla disperata ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, in un viaggio interminabile attraverso mezza Italia. Proprio nel paese dello spaghetto, nell'Italia che consuma e s'ingozza fino a scoppiare, Citti, Davoli, Benigni e un folto codazzo di affamati senza pane e senza casa si gettano all'inseguimento di qualcosa da mangiare. Ma, come vuole il paradosso favolistico, più seguono il cibo, più ne sono perseguitati (anche nei sogni), senza mai riuscire a tappare gli abissali buchi che logorano i loro stomaci. È la fame a guidare questa schiera di vagabondi contemporanei, lontani parenti dei pitocchi partoriti dalla penna (e dalla pancia) del Boccaccio, di Teofilo Folengo, di Giulio Cesare Croce e di tutta una tradizione letterario-culinaria pauperista e "stracciona" che ha lontanissime radici. E queste radici sono lì, nella pancia, soprattutto quella del popolo, e soprattutto se la pancia è vuota. Ho appena accennato il prologo, i primissimi fotogrammi di un viaggio della fame che voglio lasciar scoprire a chi non ha ancora visto il film, perché questo sono gli stralunati e sventuratissimi personaggi creati da Citti con la collaborazione di Cerami, la personificazione della fame più nera e inappagabile che il cinema abbia mai conosciuto (solo quella del pasoliniano Stracci [La ricotta] si avvicina, ma al contempo si eleva tragicamente al di sopra dei borborigmi e dei digiuni dei personaggi del Minestrone).
Prima viene lo stomaco, poi viene la morale (Brecht dixit). Non esiste morale laddove c'è solo fame. Tutti gli espedienti, per altro fallimentari, escogitati dai protagonisti pur di arraffare del cibo non sono delle furberie un po' strampalate, sono moti viscerali dettati dal puro bisogno fisiologico. Non è ladro chi ruba il pane. Nel suo apologo Citti racconta anche questo, ma senza moraleggiare. Lo fa invece con leggerezza e profondità, come spesso accade nel suo cinema. Tuttavia, c'è pur sempre una morale della favola. Come da tradizione, anche qui la troverete nell'epilogo, tanto surreale e sgangherato quanto poetico.
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