Regia di Sergio Citti vedi scheda film
Tre ore di fame per la TV
Per nostra fortuna il cinema di Citti non è mai riuscito a soddisfare la sua fame, a diventare l’opera di un regista appagato di un borghese agiato. La sua favola rimane sempre sospesa tra sogni e bisogni dove la morale può anche essere difficile da capire ma il problema dello sfamarsi resta li sempre in agguato pronto a complicarci la vita. Quando non si ha niente da mangiare ci si mette al livello delle bestie, ed anche l’animale più fedele all’uomo diventa un concorrente che ci precede e ci rovina la possibilità del pasto e non ci lascia nemmeno le ossa. I poveri non hanno nulla per definizione, quando vogliono evadere dalla realtà con la fantasia finiscono dentro per il disturbo della quiete. In carcere capiscono, grazie ad un giovane maestro toscano, che se vogliono mangiare senza pagare debbono saper scappare prima che l’oste presenti loro il conto. Il problema è che uno stomaco poco abituato può rigettare il cibo quando la digestione è troppo movimentata e bagnata. Il riposo può arrivare solo quando ritorna la fame e quando ritorna il giorno non si possono più sfruttare i tanti ristoranti romani si può solo sperare nella cucina tosco-emiliano-romagnola in un viaggio che può solo essere riempito dalle descrizioni gastronomiche di pietanze che non potranno essere assaggiate. Chi ha fame è disposto a mangiare tutto , chi ha fame non è sicuro di sfamarsi nemmeno durante il sogno, chi ha fame arriva al punto di illudersi di mangiare di trasformare una trattoria abbandonata in un luogo magico fra la miseria concreta di Chaplin e la potenza onirica di Bunuel. Quando cercano un luogo per mangiare trovano delle onoranze funebri, dove la morte diventa il momento nel quale il nostro appetito può placarsi e ogni necessità biologica terminare. Quando si mette qualcosa nello stomaco non è commestibile e il bisogno rimane diventa una malattia e il sogno diventa un viaggio senza meta sempre più affollato e affamato che rimanda solo la fine ma che non può risolvere la nostra umana sofferenza.
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