Regia di Sergio Citti vedi scheda film
Ecco, questo è uno di quei film che oggi sarebbe impossibile non solo realizzare, ma perfino concepire. Non c’è più la RAI coraggiosa di quei tempi, non c’è più Citti, non c’è più una società in grado di recepire e sostenere un’idea di cinema (e televisione) così candidamente politica e, insieme, autenticamente popolare. Come immaginare, oggi, nell’Italia del 2015 un film sulla Fame ispirato a Pasolini e Bunuel? Un film di poveretti, umilissimi, emarginati: un film fatto sul nulla col nulla. Ma da quel “nulla” nasce una ricchezza di spunti e trovate, che consacra ancora una volta il cinema minimalista, low-budget, a universo creativo ed immaginifico di straordinaria potenza espressiva (a patto di poter contare su idee brillanti). C’è spazio per discorsi, ora compiuti ora abbozzati, su un ampio spettro tematico che coinvolge anche la Morte, il cosiddetto “fascismo quotidiano”, la beffarda superiorità della bestia nei confronti della razza umana, allusioni ed allegorie degli scontri di classe (e anche all’interno della stessa classe) e altro ancora. Certo, nelle 3 ore di durata della versione televisiva, non tutta l’opera conserva la stessa intensità ed alcune soluzioni lasciano un po’ a desiderare, certi episodi paiono forse irrisolti e tirati per i capelli. Ma nel complesso, “Il minestrone” resta un apologo, tanto feroce quanto compassionevole, sulla Fame, sviscerata non solo nelle sue primarie componenti fisiologiche ed economiche, ma anche come categoria esistenziale e filosofica. E’ un “fascino discreto del proletariato”, a tutti gli effetti, quello messo in scena da Citti, dove un gruppo sempre più numeroso e disincantato di affamati si imbatte in un metaforico pellegrinaggio alla ricerca di un pasto che non arriverà mai, se non nei sogni e nelle allucinazioni (o evocato da tormentoni verbali, che passano in rassegna qualsiasi specialità gastronomica, creando una sensazione di eterno miraggio). Se in alcuni frangenti la fantasia di Citti si arena in uno humour grottesco senza particolare mordente, in altri invece assume una qualità visionaria e politica come capitava ai maestri citati in precedenza. L’onirismo multiplo (come nell’incipit delle “Mille e una notte” pasoliniane o nel Bunuel anni 70) si imbastardisce, assumendo le tonalità buffe, triviali e para-televisive dell’inquinata cultura sottoproletaria (la Fame come oggetto di una competizione sportiva, olimpica o pugilistica, con tanto di cammeo di Galeazzi!), ma sa anche richiamare la struggente poesia chapliniana (il fastoso “pranzo invisibile”, momento degno della scarpa consumata da Charlot). L’episodio più politico è senz’altro quello dell’incontro con l’aspirante suicida, imprenditore corrotto e fallito, figlio di un nobile latifondista: un confronto surreale che illustra, senza slogan e senza ambiguità, l’innata insensatezza ed ineluttabilità delle differenze di classe. Suggestivo anche se un po’ pretestuoso il finale “messianico”, che richiama la musica e i coreografici campi lunghi di un Anghelopoulos, smentendone però la sacralità con la battuta finale, squisitamente becera. Un Benigni che, una volta tanto, ammaestra il suo tipico istrionismo per lavorare di sottrazione, impreziosisce un cast di caratteristi della decadente ma (col senno del poi) rimpianta commedia all’italiana dell’epoca. Fra gli ultimi fuochi di una stagione ideologica/cinematografica irripetibile per il nostro cinema, prima di passare definitivamente il testimone a Moretti e al morettismo, “Il minestrone” ha la sempre più rara qualità di divertire scuotendo le coscienze.
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