Regia di Barry Jenkins vedi scheda film
Mai il termine di “romanzo di formazione” si può usare con tanta appropriatezza come in questo caso, dove appunto una persona, qui raccontata nelle tre fasi della vita, impara a proprie spese cosa vuol dire la vita e soprattutto impara a conoscersi, accettarsi e realizzarsi, scegliendo quindi la propria strada.
È bello pensare che in una notte di chiar di luna un nero venga visto blu. È poetico credere che il nero non sia così scuro ma che abbia sfumature di blu. È musicale quando sentiamo che il black viri verso il blue(s).
In fondo, come diceva qualcuno, il colore è un’illusione dei nostri occhi. Il nero, nella sua accezione più estesa, che sia della pelle della carta del mondo della natura della notte del buio, può anche essere accecante quando è forte alla nostra vista. Barry Jenkins, promettentissimo giovane regista miamian, lo ha reso infatti accecante agli occhi degli spettatori di tutto il mondo. È bastato raccontare e fotografare in un toccante e angosciante romanzo di formazione la crescita e soprattutto la metamorfosi di un individuo nato e cresciuto in uno dei quartieri più difficili e malfamati della sua Miami, Liberty City, che di “libero” ha molto poco, essendo gli abitanti di quella suburra piuttosto ostaggi di una vita non scelta ma trovata e a cui si sono adeguati: spaccio e consumo di droghe di vario tipo sono attività ordinarie, come unica fonte di sostegno per tanti pusher e come unico passatempo di tanti giovani che si “fanno” e basta. Intorno solo violenza e soprusi. Arduo per un ragazzino desiderare una vita migliore, impossibile uscire da quel grande ghetto, fuori da ogni immaginazione pensare ad un futuro diverso da ciò che vede quotidianamente.
Chiron, Piccolo per tutti, è un’eccezione miracolosa nel mare scuro della gente di Liberty City, un fior di loto nella melma suburbana, ma essere timido è già un lato debole e attaccabile dalla massa circostante e non essere aggressivo o sfrontato o ribelle è un marchio distintivo ma svilente che lo pone dall’altra parte della barricata: quella dei dileggiati e perfino abusati. Piccolo si difende come può e subisce con filosofia, cavandosela come può, cercando riparo in una casa dove la madre non è una mamma. Quindi è inesorabilmente solo. Piccolo e solo nel mondo, dove, sa benissimo, deve saper sopravvivere come un cucciolo nella savana abitata da predatori affamati. È in questa fase della sua vita che avviene la prima delle due scene più emozionanti e più tenere di tutto il film, in casa dell’unica persona si cui può contare e che gli farà da strada maestra per il futuro, anche quello più lontano quando sarà un ragazzone maturo, Juan, uno dei più grossi organizzatori dello spaccio locale. A lui chiederà ciò che lo assilla da tempo:
- Cosa vuol dire frocio?
- È una parola che usano per insultare i gay. Puoi essere gay, ma frocio proprio no.
- E io sono gay? Come faccio a capirlo?
- Sei tu che devi decidere chi sarai – aggiunge l’uomo – non permettere mai agli altri di decidere per te. Adesso non è il momento, lo capirai da solo, quando sarà il momento giusto.
Piccolo e frocio, già. No, Chiron crescerà di corpo e di mente, dentro e fuori, dentro il quartiere e in un’altra città. Chiron, che era Piccolo e che poi da grande sarà semplicemente Black, orgogliosamente nero, costruito nel fisico e ricostruito psicologicamente, troverà la sua via maestra indossando i panni e il ruolo del suo mentore Juan, perfino incollando sul cruscotto della sua auto lo stesso oggetto pacchiano e dorato che lui esibiva in bella mostra nella stessa maniera. Purtroppo però mai realizzando la vita sessuale che avrebbe voluto, in quanto sempre nascosta e addirittura messa da parte. Solo nel finale - ed eccoci alla seconda scena significativa - questo giovanottone muscoloso e orgoglioso, con denti, collana e orologio d’oro, ritrovando in modo del tutto inaspettato il suo amico più caro, anzi l’unico appoggio tra gli amici/nemici dell’adolescenza a cui si aggrappava bisognoso, assistiamo ad una inquadratura che scioglie la tensione nervosa che percorre tutto il film, dall’inizio alla fine. Lo sguardo pieno d’affetto scambiato tra Black e il suo amico Kevin è una tisana che calma la febbre, è l’asprezza della vita che diventa dolcezza, è la rabbia che si trasforma in un respiro senza affanno. La fotografia di Piccolo/Chiron/Black che appoggia teneramente e affettuosamente la testa sulla spalla ospitale di Kevin, oltre ad essere la sequenza più emozionante del film, è anche la quiete dopo la tempesta, l’appagamento dello spirito.
L’inferno della sofferenza. Non fisica, quella si sopporta, anche se si è giovanissimi. No, la sofferenza è una sinfonia dolente della mente e dell’educazione dello spirito che travolge un mite ragazzino di colore, uno dei tanti che abitano nell’infimo quartiere Liberty City, sobborgo di Miami. Mai il termine di “romanzo di formazione” si può usare con tanta appropriatezza come in questo caso, dove appunto una persona, qui raccontata nelle tre fasi della vita, impara a proprie spese cosa vuol dire la vita e soprattutto impara a conoscersi, accettarsi e realizzarsi, scegliendo quindi la propria strada. Ben consapevole del suo corpo e della sua anima. Peccato che però il regista Barry Jenkins, padrone assoluto del significato di questa bella e drammatica storia, non mantiene fino in fondo l’andamento del film: molto intenso e “vissuto” nei primi due terzi, più diluito e lento nella terza parte finale, ma che ha in questa porzione il difficile compito di tirare le somme e dare l’indirizzo definitivo alla vita del giovane Chiron e che ha anche il merito di farci emozionare con un finale beneaugurate per il destino del giovane. Ottima comunque la regia, sempre pronta a trasmetterci le più piccole emozioni che passavano sul viso dei vari attori che hanno interpretato il protagonista, con tanti primi piani così significativi che bastava il loro silenzio per riempire le pagine del copione, su quegli occhioni neri neri che chiedevano quiete e affetto, che imploravano per una pace interiore e nel mondo circostante. Il passo saltellante e baldanzoso di Chiron è un mood ma è anche un modo per dire al resto del mondo che non ha paura e Barry Jenkins ce lo trasmette perfettamente, con la camera che lo precede inquadrandolo nel suo incedere, come una piccola belva innocua che si guarda circospetto per evitare i tranelli dei predatori.
Bravissimo il regista e bravissimi gli attori tutti, con un particolare accenno per Naomi Harris che per l’occasione si è saputa incattivire nel ruolo della mamma Paula e per la performance puntuale e misurata di Mahershala Ali, attore di notevole potenzialità. La sceneggiatura è eccellente, uno dei punti di forza del film, tra dialoghi efficaci e pregnanti e silenzi pesantissimi e pregevolissima la fotografia, che illumina le scene con sapiente mano, tra la luce accecante del sole ed il buio oscuro, mettendo sempre in risalto il buio dell’anima e il colore della pelle. Perché vi assicuro che in questo film il nero ha 50 sfumature, tutte verso il blu, specialmente al chiaro di luna, quando sei sulla spiaggia e impari a nuotare aiutato da Juan. E quando esci dall’acqua ti senti più forte e più tranquillo. E la tua pelle è tutta blu.
Un buonissimo film in definitiva ma, se permettete, non l’ho visto come il miglior film del 2016 per arrivare all’Oscar principe. Senza togliere nulla all’importanza di quell’ambito premio ad un film non solo rilevante dal punto di vista sociale ma principalmente da quello politico, nel senso più ampio del termine.
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