Regia di Barry Jenkins vedi scheda film
Niente da fare, gli americani ci cascano sempre, e sempre ci cascheranno. È più forte di loro. Possiedono una memoria scarsa, e quando si ritrovano di fronte prodotti come Moonlight perdono completamente la testa. Si inginocchiano disperati e rendono grazie, strappandosi i capelli dallo stupore. Non possono proprio farne a meno.
Nonostante Moonlight sia una di quelle "cose" viste e riviste in molteplici occasioni, c'è un particolare che balza subito all'occhio; un elemento autentico che procura fastidio ed irritazione nel mentre di una visione (personalmente) ardua. Incredibile scoprire che quella cosa sia proprio la macchina da presa, o più correttamente, l'uso che si è fatto di uno strumento come la macchina da presa, capace di dar vita ai sogni, alle meraviglie, ma anche agli 'incubi', come in questo caso.
Tratto da un'opera teatrale, Moonlight racconta tre età della dura vita di Chiron. Infanzia, adolescenza e adultità vengono "analizzate" in tre atti, uno più infimo dell'altro, con i quali lo spettatore è letteralmente costretto a sorbirsi - e a pagare sulla propria pelle - l'esistenza del protagonista (i volti di Alex Hibbert da bambino, Ashton Sanders da adolescente e Trevante Rhodes da adulto), in continua scoperta di se stesso. Soggetto e sceneggiatura, ahimè, sono similari al Boyhood di Richard Linklater, un'opera che, sotto l'artificiale messa in scena di un Linklater alle prese con il progetto più fallace della sua carriera, nascondeva un cuore altrettanto artificiale. Triste era notare come l'autore della sublime 'trilogia Before' ricercava un poco di fama in più contando sul longevo tempo impiegato per le riprese, dimenticandosi completamente della propria perizia. Moonlight si limita, non impiega trent'anni per narrare sprazzi di una vita né più né meno diversa da una qualunque altra (o almeno per chi, come me, non fa distinzione sul colore della pelle o sulla sessualità), ma si percepisce fortemente la superbia di chi ha lavorato a questo progetto. Perché non c'è niente di più bello, per quanto mi riguarda, di emozionarsi al cinema. Uno spettatore che ride o piange mentre le immagini scorrono è lo specchio dell'infinita potenza che possiede un'arte audiovisiva come il cinema. Al contempo però, la cosa che più odio ritrovarmi sullo schermo è un prodotto intenzionato a strappare via con la forza le emozioni. Questo non è cinema, è ricatto. Moonlight, tra i più favoriti agli imminenti Oscars, è un'opera ricattatoria, che si fonda sul ricatto e nient'altro di più. Il punto interrogativo non sta tanto sulla natura del film, sul motivo della sua realizzazione o sul suo fine ultimo (più che evidente direi, specie in attuale periodo Oscars) ma sul suo artefice. Barry Jenkins. Ma chi diamine è Barry Jenkins? Da dove se ne è uscito? Chi lo ha 'costruito'? Domande impossibili che non troveranno una risposta concreta, poiché manca la concretezza, come manca l'amore per il racconto e sopratutto, l'amore per il cinema. Tutto è artificioso ed infondato, senza uno scopo ben preciso o un messaggio, anche elementare, da tramandare a chi lo sta guardando. Dalle immagini drammatiche, traspare saccenteria e arroganza, la pretesa che il pubblico si affezioni e ami tutto ciò. Tale Barry Jenkins andrebbe informato che ognuno di noi, sulla faccia della terra, ha una vita non semplice da affrontare; che i dolori e le delusioni non sono esclusività dei suoi personaggi. Non aggiungo altro.
Moonlight. Sbancherà agli Oscars (c'è sempre la speranza che La La Land si porti a casa tutto come è giusto che sia), ma io lo rispedisco istantaneamente al mittente.
Il chiaro di luna non è mai stato così moscio e presuntuosamente irritante.
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