Regia di Barry Jenkins vedi scheda film
Moonlight vorrebbe narrare il coming of age di un ragazzo focalizzando l'attenzione, sostanzialmente, sui suoi rapporti con due persone: la madre e il migliore amico d'infanzia. E fin qui, nessun problema. Vuole farlo, però, spalmando il racconto su circa vent'anni, ed estrapolando tre momenti 'esemplari' del suo percorso di crescita (riconducibili, ovviamente, uno all'infanzia, un altro all'adolescenza e l'ultimo all'età adulta), ai quali assegna un pari minutaggio, e attraverso i quali pretende di fornire un quadro esaustivo. Tra il ripromettersi e il fare, però, ci sono di mezzo una scrittura imperfetta e una regia fumosa.
Enunciato in partenza lo schema di base, ci sono ora da aggiungere i particolari distintivi: il ragazzo in questione è nero e gay, la madre è tossica e scostante, e il migliore amico, dopo averlo sedotto e innamorato, lo pesta come l'uva eseguendo - per paura di rappresaglie - gli ordini del bulletto della scuola. In sostanza, il quadro delineato è architettato per far sì che anche lo spettatore più truce si senta in dovere di prendere le parti a Chiron, il protagonista, di immedesimarsi nella sua ricerca di un ruolo nel mondo: e non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che il film si regge in massima parte su questa empatia indotta con le cattive. In ognuno dei tre tronconi in cui il regista Barry Jenkins suddivide Moonlight, avviene qualcosa di decisivo nei rapporti del ragazzo con le due persone succitate, ma tutto ciò che gira attorno a questo nucleo appare, a conti fatti, come un assemblaggio di riempitivi, per di più affidando la definizione dei personaggi più alla qualità degli attori (Alex Hibbert, Ashton Sanders e Trevante Rhodes si superano in bravura nelle parti dei 'tre' Chiron) che a sviluppi veri e propri, dispensando una dose di luoghi comuni buona per piacere alle masse, e veleggiando sulle ali di un politically correct sfacciato e ruffiano il giusto per poter puntare agli Oscar.
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