Regia di Greg McLean vedi scheda film
Greg McLean non delude mai. Pur lontano dagli scenari selvatici e dagli slasher brutali che se vogliamo sono le caratteristiche principali del suo cinema, riesce ugualmente a dirigere e a costruire visivamente horror o thriller dall’alto impatto iconografico. Con The Belko Experiment, possiamo dire che il regista australiano firma il suo secondo capolavoro dopo il dittico di Wolf Creek (2005, 2013) che va visto ovviamente come un unicum in crescendo.
Situazione chiusa: un grattacielo nel bel mezzo del nulla in una Colombia spersonalizzata e americanizzata che ad un certo punto viene sigillato da saracinesche di un materiale sconosciuto ed inossidabile. Nessuno può uscire, nessuno può entrare. Sistema dei personaggi ben caratterizzato e non necessariamente tipizzato, visti i mutamenti caratteriali a cui assistiamo. Body count incredibile e imprevedibile. Una mattanza senza precedenti, un accanimento brutale sui corpi e una leggerezza borghese nel supplizio, per veicolare tra l’altro non il solito mantra secondo cui la vittima diventa più feroce del carnefice, come si ripete, anche giustamente, da L’ultima casa a sinistra (Wes Craven, 1972) in avanti, ma piuttosto un interessante concetto politico. I potenti fanno di noi quello che vogliono. Siamo cavie. Siamo corpi da macello, istigati a uccidersi.
Se James Demonaco con la saga riuscitissima di The Purge (2013, 2014, 2016 e la commissionata del 2018) pone l’accento su una violenza razionalizzata, attesa e calcolata per purificare il Paese o magari anche per dare sfogo a qualche perversione sopita, McLean pone l’accento su una violenza determinista e classista e si fa politico.
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