Regia di Terrence Malick vedi scheda film
Ebbene sì, Malick ce l’ha fatta: il ritorno alla narrazione tradizionale dopo le interruzioni ondivaghe più o meno felici dei suoi film più recenti coincide con un capolavoro degno de “La sottile linea rossa”. Un capolavoro del quale farei uso per ripristinare la memoria della storia del cinema qualora la Settima Arte venisse cancellata dalla faccia della Terra. “La vita nascosta”, infatti, vive di una forza evocativa e di una potenza emotiva che non hanno eguali e che si servono dell’immagine prima ancora che della parola (in Malick, è sempre la seconda a seguire il flusso della prima, mai viceversa) per venire alla luce. Semplicemente eccezionale, in questo senso, la scelta di non doppiare alcuni dialoghi “secondari”.
Un cinema che mostra e non dimostra, perché Malick non è mai stato un esibizionista o un affabulatore di sensazioni ed emozioni facili e immediate. Lui mette il cinema al servizio del sentimento (non della Storia, alla quale molti ancora si aggrappano come se il cinema, per avere un senso morale, dovesse per forza prescindere da essa e dalle sue ragioni) e lo racconta, lasciando così che attraverso l’immagine esploda un vigore che non appartiene alla logica o alla razionalità, ma al cuore e allo spirito. Da quasi cinquant’anni fa il cinema che vuole e come vuole in piena libertà (quanti cineasti oggi possono vantare lo stesso?) e questo ben traspare dalle sue opere contribuendo, soprattutto nel caso del film in questione, a illuminarle di un’armonia inedita e irraggiungibile.
Con “A Hidden Life”, mette in scena un percorso fortemente cristologico popolato – in tal direzione – da figure allegoriche e archetipiche, la narrazione di un martirio scandito da luoghi e tappe, scevro da ogni possibile scivolone didascalico ma colmo di dirompente, lucida e autoriale sincerità. Un viaggio nel cuore della fede pregno di grazia e dolcezza, ma non per questo privo di dolore e tragicità (altra frequente accusa semplicistica al cinema del regista, a torto considerato eccessivamente mellifluo). È anzi forse il Malick più sofferente di sempre, straordinario nella sua capacità di rivelare la violenza lasciandola fuori campo appena in tempo, giusto il minimo indispensabile (voglio dire: la tensione sprigionata dal finale è fenomenale).
La storia di una passione, profondamente commovente nella sua verità, ammantata per tutti i suoi indispensabili 173 minuti di laica trascendenza.
Quindi no, non è solo la magniloquente meraviglia del set, come non è e non è mai stata la tavolozza di colori perfetta a fare del quadro un’opera immortale. È sempre e solo la mano dell’artista, e Malick sta al cinema come Michelangelo all’arte pittorica.
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