Regia di Frank Darabont vedi scheda film
Sarebbe riduttivo definirlo un film carcerario: è una riflessione sulla libertà (per una volta il titolo italiano è molto appropriato). La scena chiave è quella in cui Tim Robbins diffonde il suono di un disco di Mozart tramite l’impianto microfonico, in modo che i carcerati possano ascoltarlo: “per un brevissimo istante tutti gli uomini di Shawshank si sentirono liberi; e questo fece incazzare il nostro direttore”. Come un nuovo Conte di Montecristo (non a caso il romanzo di Dumas fa parte della biblioteca del carcere) il protagonista scende agli inferi e poi risorge, ed è significativo che alla fine la sua innocenza non venga riconosciuta: è libero anche dalle pastoie giuridiche, non importa che passi il resto della vita da evaso. Azzeccatissima l’idea di affidare la voce narrante a Morgan Freeman: non solo l’espediente alimenta la suspense al momento dell’evasione (lo spettatore non sa che per vent’anni Robbins ha costruito un tunnel dalla sua cella, non può cogliere la funzione dei poster giganti che si susseguono segnando lo scorrere del tempo, dalla Hayworth alla Monroe alla Welch), ma ci permette di assistere all’evoluzione interiore del personaggio, da galeotto a uomo libero (Freeman: ironie del nome!), attraverso i tre colloqui per ottenere la libertà vigilata. L’ex detenuto ormai irrimediabilmente “istituzionalizzato”, e quindi inadatto a un’esistenza normale, si impicca lasciando come unica traccia del suo passaggio la scritta “Brooks was here”; il suo successore preferisce vivere.
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