Regia di William Oldroyd vedi scheda film
Non c’è l’ipocrita convinzione che il delitto susciti pentimento in questo bel film di Oldroyd. Non c’è colpa, c’è solo affermazione del proprio diritto a vivere.
Il nome del “beccaio morto e della sua demoniaca regina”, Macbeth, da secoli risuona torvo sulle scene dei teatri del mondo.
Il cinema si è impadronito di lui con i suoi migliori registi (Kurosawa, Polansky, Welles), il tetro Glamis Castle nella brughiera scozzese è oggetto di pellegrinaggi devoti, non c’è sasso che ignori quel nome.
Shakespeare ne fece un gioiello impareggiabile, la sua tragedia più breve e sanguinosa, e il grande dramma cristiano, l’archetipo di tutti i dolori del mondo, divenne teatro.
Adamo ed Eva fuggiranno dunque sempre dal paradiso terrestre, la colpa all’origine della loro aspirazione alla felicità non perdona, il sonno sparisce, “Non dormir più! Glamis ha ucciso il sonno e quindi Cawdor non dormirà più, Macbeth non dormirà più!”, il sangue non si cancellerà mai e “tutti i profumi dell'Arabia non basteranno a rendere odorosa questa piccola mano”.
Continuerà dunque sempre a vivere grazie all’arte e ad adornarsi di lutto l’archetipo universalmente riconosciuto del modello femminile? Sembrerebbe di sì.
Da Eva passando per Clitennestra, Lady Macbeth è stata ed è l’incarnazione più riuscita dei mali del mondo riconducibili tutti a mano di donna.
Questa volta è l’Inghilterra vittoriana, claustrofobica e chiusa fra ombre e silenzi, ad ospitare i suoi intrighi, in una originale rivisitazione del racconto di Nikolaj Semënovic Leskov (1831-1895), Lady Macbeth del distretto di Mcensk, quel racconto che tanto dolore procurò al grande Maestro Sostakovic quando decise di metterlo in musica e il regime sovietico ne decretò la condanna a due anni dalla trionfale prima del 1934.
“Caos anziché musica ”, disse quel fine intenditore di musica che fu Stalin, e da quel giorno il povero Dmitrij aspettò per anni con la valigia pronta di essere spedito in Siberia.
Per fortuna ciò non avvenne.
Dunque la nostra Lady colpisce ancora e, a dimostrazione di quanto la crudeltà femminile non conosca confini, questa Lady di ferro di cui conosciamo solo il casato, naturalmente quello del marito, dalla tundra siberiana alla brughiera scozzese, dalle pendici del sacro Fuji fino ai folti boschi del Nord England, non cessa mai di seminare morte e distruzione.
Ma cosa la muove a tanto? Sete di potere? Disprezzo per il marito debole? Frustrazione di donna vilipesa e ignorata? Insana e connaturata tendenza al male? Una natura malvagia portata all’intrigo e alla sordida manipolazione?
Forse tutto questo, chi può dirlo?
Cerchiamo però di capire se quest’ultima sua incarnazione in ordine di tempo, la Lady di William Oldroyd interpretata da una splendida, glaciale ma spesso anche ironica Florence Pugh, continua ad adattarsi al suo modello o se, almeno questa volta, qualcosa di diverso si sia riusciti a raccontare.
Partiamo dalla forma circolare del racconto.
Dal matrimonio alla maternità.
Prima scena: lei, diciassettenne, velata, è inquadrata da più lati ma sempre in primo piano.
Vediamo il suo volto, il capo velato, gli occhi che guardano veloci lo sposo, un’ombra alla sua destra.
Alle sue spalle pochi presenti fra le cupe ombre della cappella recitano i salmi matrimoniali.
Katherine, questo è il suo nome, è stata “comprata”, preciserà il suocero più avanti, dovrebbe sbrigarsi a far figli, ma lo sposo preferisce altro piuttosto che ingravidarla.
Ultima scena: lei seduta sull’ampio divano giallo con l’ampio abito di seta blu che le fa ruota intorno, immobile, maestosa, sguardo in macchina e mani sul grembo. Posa tipica delle puerpere, spontaneamente protettiva del nascituro.
Fra questi due punti si dipana il cerchio.
Oldroyd alla sua opera prima cinematografica, ma con una solida esperienza teatrale, conosce bene l’arte del comunicare, tutti i codici del linguaggio teatral/cinematografico sono messi in gioco, non trascurando, anzi cercando con cura, segni topici delle arti visive nella cura minuziosa degli sfondi, nella disposizione dei corpi sulla scena (impareggiabile il quadro di fissità bizantina del suocero morto dentro la bara e lei a fianco, ripresi in verticale), nella distribuzione dei piani, nel sapiente accostamento di campi lunghi, panoramiche e primi piani.
Ne risulta un affresco composito che racconta una storia con la necessaria sintesi, ne suggerisce i risvolti tragici con giusta misura, sviluppa una riflessione molto intensa su fatti di costume, stili di vita, retaggi ancestrali e aspirazioni frustrate verso un mondo nuovo.
Katherine non è la Lady sanguinaria e pentita senza redenzione, è una giovane donna che vuole amore, se lo procura con ferrea determinazione, lo difende fino all’ultimo ed esce vittoriosa.
Sola ma vittoriosa.
Lungo questa strada il delitto sembra una tappa necessaria, anzi lo è, ma non ce la rende odiosa, non ha scelta e, soprattutto, non ha torto.
Non c’è l’ipocrita convinzione che il delitto susciti pentimento in questo bel film di Oldroyd. Non c’è colpa, c’è solo affermazione del proprio diritto a vivere.
Katherine ripresa così, diretta e serena, immobile e protettiva, su quel divano dice tutto quel che va detto sulla necessità di non cedere a nulla. Salvare l’uomo, quello che nascerà, è ciò che conta, quel che è stato è stato.
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