Regia di William Oldroyd vedi scheda film
Breve Film sull'Uccidere.
An (non “la”, ma “una”, ovvero: quando il nome proprio diviene - sin, ovviamente, dalla seconda metà degli anni ‘00 del XVII secolo - sostantivo) English Orël-Sibirska Lady Macbeth: un matrimonio, quello fra Inghilterra e Russia, stranamente (non esiste alcun paese al mondo a cui Londra non abbia mosso guerra) riuscito.
Liberamente (l'epilogo diverge de jure, ma in fondo non de facto: ad esempio, giustappunto per quanto concerne il finale, una differenza sostanziale risiede nel fatto che qui la protagonista è incinta, mentre nel libro ha partorito da un anno) tratta – come l’opera lirica di Sostakovic e Preis del 1934 e il film di Wajda del 1962 – dalla novella di Leskov del 1865 (quasi un quarto di secolo dopo, separato da un braccio di mare tanto dalla Russia quanto dall’Inghilterra, Strindberg porterà in scena - dopo averla scritta “per il cassetto”, che ben presto assunse le dimensioni del mondo quas’intero - “la Signorina Julie”, tragedia in atto unico che può esserne considerata al contempo un compendio/corollario, una variazione sul tema e un’antitesi), “Lady Macbeth”, l’opera prima nel lungometraggio (dopo i corti “Christ’s Dog”, “In Mid Wickedness” e “Best”) di William Oldroyd (in attesa di “Eileen”), (ri-)scritta da Alice Birch {che poi sarà co-sceneggiatrice con Emma Donoghue e lo stesso regista del “the Wonder” di Sebastian Lelio [interpretato sempre da Florence Pugh nel ruolo di protagonista, qui (col cast principale completato dagli ottimi Christopher Fairbank e Naomi Ackie e dai bravi Cosmo Jarvis e Paul Hilton) quasi agli esordi (aveva già girato “the Falling” e la 1ª stag. di “Marcella”, mentre il botto avverrà tre anni dopo con “MidSommar” per giungere poi all’eterogenea “consacrazione” - vuoi artistica, vuoi pecuniaria - di “Dont’ Warry Darling”, “Black Widow”, “Oppenheimer” e “Dune: Part Two” con, nel mezzo, “Outlaw King”, “the Little Drummer Girl”, “Little Women” e “A Good Person”) e/ma già completamente…
…padrona del mestiere], creatrice della serie “Dead Ringers” basata sul romanzo di Wood & Geasland e sul film di Cronenberg & Snider e adattatrice per Mahalia Belo del “the End We Start From” di Megan Hunter}, prodotta da Fodhla Cronin O'Reilly (“Ammonite”), fotografata (tra interni ed esterni è sempre comunque il corpo di Pugh ad essere al centro del fuoco, là dove cadendo convergono le linee di prospettiva) da Ari Wegner (“In Fabric”, “the Power of the Dog”, “the Wonder”, “Eileen”), montata (percettibilmente benissimo) da Nick Emerson (“Daphne”, “Pin Cushion”, “Greta”, “Emma”, “Eileen”) e musicata (molto bene) da Dan Jones (“Shadow of the Vampire”, “Dead Set”), rifulge di una invidiabile sapienza tanto compositiva del quadro animato (rigore formale mai fine a sé stesso) quanto organizzativa del flusso narrativo (e per questo sarà molto interessante scoprire cosa e come sarà “Eileen” con Thomasin McKenzie), riuscendo persino a svicolare dalle proprie parossistiche – ché di tragedia nel senso letterale del termine si tratta: senza prologo, ma in medias res, né parodo né stasimi, ma strutturandosi grazie “solo” a vari episodi e ad un esodo in spegnendo – derivazioni “orrorifiche” (à la kieslowski-piesiewicz, “certo”) controbilanciandole con un finale, per l’appunto, scientemente “barrylyndoniano” e privo di deus ex machina che non sia l’assestarsi muto della magione acquisita, col corrimano della ringhiera della scala interna già consunto dall’uso di mani (sepolte, quelle dei proprietari e dei "Bullington", o disertrici, quelle della servitù) oramai svanite.
Catherine, che un tempo non molto lontano fu comprata all'asta del bestiame, adesso, accusando un consunto dalla colpa Sebastian e una strutturalmente innocente Anna, per salvare sé stessa e il frutto del suo ventre, dicotomica pendaglio da forca upper class, ché le due cose spesso e volentieri sono immiscibili, con la seconda che scaccia la prima, e pure a furor di pòppolo, si porta entrambe le mani al grembo tanto a metaforica protezione del nascituro quanto per ergerlo come salvacondotto e scudo. Una culla!, serve una culla!
“Lady Macbeth”, ovvero: un breve film sull’uccidere di quando la lotta di classe viene “stemperata” con la psicopatologia criminale.
Insomma: Shakespeare + Marx + Freud, solo che il delinquente assassino (principale) non prova alcun senso di colpa (men che meno edipico, nonostante il momento più tenero sia la rievocazione da parte della protagonista, verso il pre-adolescente tutelato, della propria madre) e la politica è convergenza evolutiva: rimane Shakespeare (e dintorni).
“To the cross, to the prison, to the grave, to the sky.”
(To the empty manor, to the full womb, to the quantum cradle.)
* * * ¾ (****) - 7.675
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