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David Lynch: The Art Life

Regia di Jon Nguyen, Neergaard Holm, Rick Barnes vedi scheda film

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La recensione su David Lynch: The Art Life

di yume
8 stelle

"Ogni volta che si dipinge o si fa qualcosa partendo da certe nostre idee, a volte è il nostro passato che magicamente le evoca e le colora. E anche se si tratta di idee nuove, è sempre il passato che le colora" David Lynch

locandina

David Lynch: The Art Life (2016): locandina

Presentato a Venezia73, nella sezione Venezia Classici, il film-documentario David Lynch: The Art Life diretto da Rick Barnes, Jon Nguyen, Olivia Neergaard-Holm è un racconto biografico che i tre registi hanno scritto vivendo fianco a fianco con il regista per dodici anni di lavoro e 25 ore di girato.

Nulla di costruito, niente domande e risposte, solo David nel suo laboratorio di artista, le sue mani di pittore sempre al lavoro, sulla tela a stendere il colore in larghe campiture materiche, con plastilina a modellare forme, fumando una sigaretta dietro l’altra e muovendosi con la pacata lentezza di chi sa quello che la vita si aspetta da lui e lo sta facendo.

Questo è il carattere che più emerge da questa ricostruzione biografica, il dato più solido e forte nella miriade di elementi che ripercorrendo il passato si possono individuare nella storia di un uomo: la determinazione ad essere quel che si sente di essere.

Sembra facile, non lo è.

Il padre Donald che lo segue su quella scala dopo che il figlio l’ha portato pieno di entusiasmo nella lurida cantina che sta usando come laboratorio dei suoi esperimenti pittorici.

David che si volta e vede sul viso del padre una smorfia di autentico dolore: “Fai in modo di non mettere al mondo figli”.

Trovare un lavoro serio per mantenere la piccola Jennifer, fin lì l’ambizione del padre.

La pena del figlio per la pena del padre è cosa seria, riuscire ad elaborarla fa parte del gioco.

Di figli Lynch ne ha avuto quattro, mogli tre, gli incontri, le letture giuste, il genio che preme e un pizzico di fortuna hanno fatto il resto.

 

Merito di Rick Barnes, Jon Nguyen, Olivia Neergaard-Holm, e naturalmente della supervisione di Lynch stesso, è stato non aver creato il ritratto del genio lungo il cammino segnato dal destino.

Dalla materia informe che un individuo è alla nascita, fatto salvo un corredo genetico che per le vie più disparate e spesso impensabili tesse le sue reti, l’uomo ha preso forma.

Ora bisogna ricostruire, alla piccola Lula il vecchio papà David deve raccontare tante cose, perché un giorno Lula senta che è lì, vicino a lei, anche se in trasparenza, nei sogni o magari nel pensiero che a volte ama adagiarsi pigramente sul passato.

Siamo stati noi a dirgli: David, non sei più un ragazzino. Hai una figlia piccola (il film è dedicato a Lula, la bellissima figlioletta avuta dalla terza moglie che appare in una breve scena), forse è arrivato il momento di fare un film su te stesso, così un giorno lei imparerà molte cose sul tuo conto. Devi condividere queste storie con lei. Lula è troppo giovane e David ha appena compiuto 70 anni. Potrebbe non essere più qui quando la figlia diventerà una teenager. Anche se noi speriamo che viva per sempre”.

E cosa si può lasciare di sé ad un figlio?

Foto, pezzi di filmato amatoriale, tutto quello che può esserci alle spalle e nella vita di una persona con un grande futuro davanti che dovrà pian piano formarsi, e soprattutto quel che serve per capire la qualità più intima della figura paterna, una meditazione serena sulla vita già vissuta e non lontana dal traguardo finale.

Lynch si guarda vivere, oggi, e cerca nel passato i segni del presente. Sullo schermo il tempo non scorre lineare, torna alla dimensione mitica di tempo circolare dove ogni segmento s’innesta nell’altro, a tratti coerente, altre volte con legami incomprensibili.

Il bambino biondo di agiata famiglia borghese che si metteva in posa sorridente con i due fratelli è ora l’anziano, tranquillo signore dalla gran massa di capelli bianchi che si muove senza posa tra le sue opere nel workshop di casa.

Il grande regista, la figura pubblica, l’acclamato creatore di inediti immaginari cinematografici, scompare dal primo piano per collocarsi sullo sfondo, in filigrana, lì dove chi conosce i suoi film lo vede trasparire nel corso del processo formativo che il documentario va costruendo.

Quello che lui e i tre registi hanno voluto è la storia vera di un uomo che negli anni ha visto crescere e prendere forma il David Lynch di oggi.

Le tracce che la storia di ognuno lascia di sé nel tempo e nei luoghi in cui è vissuto, le persone vive ma perse nello spazio, quelle morte e ferme nel ricordo più essenziale, quei brevi flash che s’incuneano nella memoria e vivono di luce propria, come staccati da ogni altro riferimento temporale, solo pure presenze mnestiche su cui scriviamo la nostra storia più intima, tutto questo è la materia di David Lynch: the Art Life, titolo capace di contenere in felicissima sintesi la materia sterminata della vita di un uomo.

Parole, poche, la voce di Lynch segue le immagini, le racconta, qualche volta commenta:

Ogni volta che si dipinge o si fa qualcosa partendo da certe nostre idee, a volte è il nostro passato che magicamente le evoca e le colora. E anche se si tratta di idee nuove, è sempre il passato che le colora ”.

La pittura, la prima delle arti, la mano che si fa tramite del pensiero e gli dà forma tangibile, sembra, oggi come ieri, la pratica più costante della sua vita. Da quelle tele di stampo ora surreale ora espressionista l’approdo al cinema è stato un passaggio obbligato, pittura in movimento che ha spostato sulle schermo tubetti di vernice, creta, plastilina, tele, i materiali più disparati della bottega di un pittore e del suo immaginario creativo.

Seguire questa autobiografia e veder scorrere in contemporanea sequenze da Eraserhead o Inland Empire, Mulholland Drive o Blue Velvet è piacevole come scoprire i segreti chiusi nella stanza della memoria di un grande artista svelati da lui.

In pittura esistono elementi che valgono per ogni aspetto della vita. Ci sono cose che non possono essere espresse con le parole. È questa la natura della pittura ed è, per quanto mi riguarda, in gran parte anche quella del fare cinema. Ci sono le parole e ci sono le storie, ma ciò che puoi dire con un film non lo puoi esprimere a parole. È proprio qui che sta il bello del linguaggio cinematografico: e ha a che fare col tempo, col concetto di giustapposizione e con tutte le regole della pittura. La pittura è un’arte che si trascina dietro tutte le altre”

 

Tornare bambini per capire, operazione fondamentale se vogliamo dare nome alle nostre paure, alle gioie, alle minime fibre del nostro tessuto.

Lynch fa proprio questo, modellando il suo vissuto in forma di memoria, così come nei film modella le immagini in forma di storie. Iniezioni di connettivina cuciono parti del passato, che sembrano raccontare una storia, ma la vita non è un racconto, è un grumo che si tende, si espande, soffoca o cresce, si dilata o si rattrappisce.

Questo riesce a dirci Lynch, che parli di sé con i suoi filmati amatoriali e le foto di bambino e adolescente, o manipoli oggetti, plasmandoli, attaccandoli alla tela avvolto da nuvole di fumo.

Fra questi estremi c’è il suo grande cinema.

Riferisce Nguyen: “Nel nostro film lo vedete prendere appunti o scarabocchiare su un foglio giallo, più volte. In quei momenti scriveva alcune delle storie di Twin Peaks che vi presenterà nel 2017. Quelle storie gli venivano fuori all’improvviso. E lui le annotava in diretta davanti a noi. Eravamo molto felici di trovarci in quella stanza e assistere al processo creativo”.

 

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