Regia di Shubhashish Bhutiani vedi scheda film
Diario minimo degli ultimi giorni di un poeta dimenticato. Un uomo in procinto di abbracciare l'infinito.
Morire così. Come prescritto dal libro sacro, in una città santa, bagnata da un fiume che segna la strada verso l’infinito. Un anziano poeta decide che quella è la fine migliore. Come lui, tanti altri pellegrini, provenienti da ogni parte dell’India, si recano in quell’albergo di Varanasi per trascorrere i loro ultimi giorni. Quel posto è la riva che accoglie un’attesa apparentemente sterminata, una rivelazione di cui è impossibile scorgere i confini. E sebbene il tempo, secondo la misura degli uomini, sia inesorabilmente limitato, laggiù non se ne avverte l’angosciante ticchettio. Che si tratti di due settimane o di diciotto anni, l’estremo lembo dell’esistenza scorre placido come il Gange, trascinando con sé ogni cosa, azzerando lentamente il legame dei corpi con la terra, tramutando la carne in cenere impalpabile, finché il doloroso silenzio non deflagra nella rumorosa gioia di una festa. Ad accompagnare la salma ci saranno tanti bei lanci di fiori. Questo film si prepara all’evento anticipandone i colori, con l’energia semplice ed incandescente delle tinte fondamentali, in cui il vecchio Dayanand si immerge come nell’ultima, splendida luce del tramonto. I suoi attimi residui sono le miniature di un mondo che si avvicina alla sera facendo di ogni attimo un quadro memorabile, fissando per sempre il dettaglio di una suggestione che non vuole fuggire. Il linguaggio di questa storia non vuole invadere l’imponente regno della trascendenza, preferendo trattenersi nella sua disadorna anticamera, dove gli oggetti, la sporcizia, le piccole rovine dei desideri inesauditi si ammassano dentro spazi scomodi ed angusti, come per essere pronti a fluire al di là, non appena la porta si apre. Sono i cimeli della fede in una continuità che sfida la temibile apparenza del nulla. Anche questa storia coltiva il suo niente come una poesia rimasta inedita, di cui si ricordano a malapena i versi, e dei cui echi la mente cerca di nutrirsi per non farsi trovare impreparata di fronte al grande passaggio. Le romanticherie da saga popolare si stemperano nella indulgente rarefazione che rende letteraria perfino l’inconsistente scia della banalità. Basta poco per trasformare la tentazione della fiction in un abbozzo di elegia. Ed è sufficiente un lieve tocco pittorico per donare alla prevedibilità il commovente accento di un addio. Intanto la verità rimane quella non scritta, nascosta fuori dalla scena, inaccessibile ai comuni mortali. La delicata ingenuità di questo film ammette forse questa beatificante chiave di lettura, che arricchisce la gradevolezza della superficie con un timido sospetto di profondità. Un’interpretazione che, nella sua benevolenza, racchiude il devoto, condiscendente sforzo di udire, dietro la voce del pensiero consueto, il flebile controcanto dell’anima assorta.
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