Regia di Wim Wenders vedi scheda film
Un altro gioiellino di poesia intellettualistica e minimale di Wenders, l'ennesima dichiarazione d'amore per il cinema e per il mondo, un altro sguardo puro e limpido che lascia trapelare attraverso ogni immagine un genuino stupore ed entusiasmo di fronte a ogni scorcio, a ogni angolo di una città, Lisbona, che non è altro che uno dei tanti tasselli del mosaico di Wenders, una delle tante tappe attraverso le quali lo sguardo incantato del regista compie il suo viaggio in giro per il mondo.
Wenders secondo me parte sempre con l'intenzione di raccontare una città, è spinto a girare film dal suo instancabile amore per lo sguardo, ma finisce sempre per constatare la difficoltà oggi di raccontare la realtà a causa dell'inquinamento di quest'ultimo, dell'ottundimento visivo dovuto alla mercificazione e alla proliferazione di immagini svendute, che con la realtà, con l'oggetto rappresentato non hanno più nulla a che vedere, essendone divenute solo dei vuoti simulacri (chissà se Wenders non voglia riferirsi consapevolmente ai simulacri baudrillardiani).
Nella nostra epoca, l'immagine va incontro a uno scollamento dalla cosa rappresentata per colpa di un mondo divenuto tutto uguale, monotono, asettico e indifferenziato, che non può che respingere lo sguardo impedendogli di penetrarne la superficie; bisogna pertanto ritrovare il legame fra l'immagine e il mondo, fra l'immagine e la cosa rappresentata e rifarne un tutt'uno, ridare profondità al reale e dunque senso all'immagine, ma per farlo è necessario mettere per un po' da parte lo sguardo, ormai usurato e assuefatto all'eccesso di immagini che ne hanno contaminato la purezza, per ritrovare la realtà delle cose da un altro punto di vista, quello del suono: il suono infondo, partecipando dell'essenza "intima" della cosa, può essere considerato l'equivalente di un segno, un segno dunque che rimandi alla cosa da cui proviene come al suo significato. Ma è proprio il suono ad esere particolarmente suscettibile di diventare rumore e confusione, e quindi caos, e pertanto, costituendo esso il "significante" del mondo, rendere anche il significato confusionario e incomprensibile, impenetrabile allo sguardo. Andare in giro per la città a registrare i singoli suoni, significa pertanto cercare di fare ordine fra questi, cercare di dipanare la matassa dei "segni" di cui sarebbe composto il mondo, discernerli e risalire così da essi alla loro fonte, per riscoprire il mondo riordinando il suo linguaggio, divenuto sconnesso e caotico.
Ecco dunque che dalla riconquista del suono si può risalire al riordinamento e alla comprensione del mondo, e dunque ristabilire il legame fra immagine e realtà, ridando spessore tanto alla prima quanto alla seconda. Ma ciò non è ancora sufficiente, dirà il regista alla fine, che arriverà addirittura a creare un magazzino di immagini "mai viste da nessuno", nemmeno da lui stesso, convinto che ad inquinare l'immagine sia lo sguardo che si posa su di essa: lo sguardo "inquinato" dello spettatore d'oggi minaccia immediatamente di consumare l'immagine non comprendendone il valore, e dunque creando lo scollamento fra immagine e cosa rappresentata, e fintanto che ciò non accade allora l'immagine potrà conservare la sua purezza, ovvero il suo immediato legame con la cosa stessa.
Ma il punto di svolta del film ci viene suggerito proprio dal signor De Oliveira: l'artista è un piccolo Dio in quanto ricrea l'universo, la sua potenza sta nel ricreare la realtà, anzichè nel riprodurla meccanicamente e impersonalmente, senza sguardo, come farebbe la scimmia di Cameraman; il cinema in verità non può riprodurre il reale, in quanto non ne conserva che il fantasma, lo smaterializza nell'illusione e lo trasfigura nell'immaginario, l'immagine insomma è sempre differente dal reale, è sempre "altra", pertanto la potenza dell'artista sta proprio nello sguardo, nella capacità di reinventare il reale, e dunque di immettere l'anima nel freddo apparecchio dotandolo di vita; ecco dunque che ridiventa possibile guardare la realtà con l'entusiasmo di un bambino, riscoprire il piacere e il senso del fare cinema, una volta scopertisi dei "bambini-dei", di nuovo riappropriatisi del mondo e della capacità di reinventarlo e ricrearlo attraverso lo sguardo, e attraverso quell'arte dello sguardo che si chiama cinema.
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