Regia di Robert Aldrich vedi scheda film
PREMESSA
Nel 1978, per i caratteri della Mondadori, uscì un interessante manualetto di pratica ed esauriente consultazione curato da Alfonso Canziani (Cinema di tutto il mondo: i registi e le loro opere) al quale, per la stesura delle schede, avevano collaborato molte illustri firme della critica italiana, che nella prefazione dal titolo: La regìa: evoluzione di un mestiere, di una professione, di una tecnica, di un’arte, definiva fra le altre cose, questo interessante concetto metodologico di lettura interpretativa delle opere: Qualcuno ha sostenuto in passato che la particolarità che segna la presenza del regista-autore dipende dall’autorità che costui sa esercitare, dall’ascendente che ha sulla troupe. E’ questa una concezione romantica che suppone il regista un essere superiore, situato a un livello che lo isola dal quotidiano, mentre in realtà i registi sono fra noi e fanno parte della società in cui vivono. Traggono dunque da lì le loro idee, le loro immagini, i loro fantasmi, e non possono che filmare un’esperienza, un sogno di una certa società, che è quella in cui operano. (…) Pensiamo allora che le misure e i giudizi relativi alla qualificazione di un autore siano riconoscibili nella continuità della sua opera, nella sua storia intesa come successione di scelte non necessariamente concordi, piuttosto che nel singolo film, che invece può farlo riconoscere universalmente artista originale, creatore non ripetitivo, ma che non ne definisce da solo la grandezza. (…) Il ruolo di un autore-regista, il suo essere appunto “autore” che è poi l’elemento che fa la differenza, interferisce immancabilmente nella fruizione dei suoi film; l’ecceità dell’immagine rinvia a lui attraverso le particolarità tecnico-stilsitiche della forma dalle quali non si può prescindere. Uno spettatore attento (e a maggior ragione un critico, aggiungo io) abituato alla lettura filmica, dovrà giudicare allora il film che sta osservando non solo per ciò che rappresenta in sè, ma iscrivendovi anche il giudizio complessivo che egli ha dell’autore che lo ha realizzato, ossia inglobando nella valutazione, nozioni e dati che appartengono al suo percorso in progress,(…) poiché un regista che si definisce anche autore, con la sua opera (più che con il singolo titolo) dà vita ad un unicum che è anche un fatto culturale che si inserisce nel processo di sviluppo storico-sociale e diventa – proprio per questo - un momento della storia dell’uomo, che è anche di crescita e di conoscenza (…) inquadrabile di diritto dentro l’esperienza anche creativa del nostro tempo.
Un concetto che riporto quasi integralmente (e sottoscrivo in toto) perché credo sia particolarmente pertinente se correlato al cinema di Aldrich, soprattutto in presenza di un titolo come Foglie d’autunno, e non solo per la raffinata prova fornita in questa circostanza, davvero di rara “intelligenza” stilistica (giustamente riconosciuta, almeno qui in Europa, dal meritato “Orso d’argento per la regia” assegnatogli alla Berlinale del 1956), che con tocchi all’apparenza quasi “normalizzanti”, traccia sottili inquietudini sotterranee, nobilitando una materia in superficie molto più usuale nelle sue patetiche esposizioni, che altrimenti avrebbe avuto un appeal di minore consistenza, e lasciato ben più labili “impronte”.
Nella sua ipotetica irregolarità di demistificatorio “rivisitatore dei generi” che questa volta tocca le corde del melodramma, c’è infatti una tale messe di leitmotiv che diventano le tematiche unificanti che si travasano e si amplificano assumendo differenti forme di rappresentazione da un titolo all’altro, che non possono essere disconosciute né ignorate (come invece poi fa all’atto pratico – nonostante le premesse - proprio quel libercolo, che a firma di una “sintesi” espositiva su Aldrich affidata a Franco La Polla (un critico che stimo molto, si badi bene ma che in questo caso mi sento di contraddire), non solo ignora totalmente il film in questione, ma liquida anche il regista alla stregua di un “fortunato” mestierante dalla resa discontinua, e non sempre all’altezza, un autore insomma capace di film ammirevoli, come di cose mediocri, in parte a causa dei soggetti e delle sceneggiature impostegli, in parte proprio per una oggettiva incapacità di controllare il materiale a sua disposizione, dimenticandosi di effettuare quel processo più complesso di valutazione dell’insieme del lavoro “di un autore”, che forse lo avrebbe potuto portare a conclusioni meno affrettate, poiché se è vera la premessa (quella relativa al materiale spurio col quale a volte si è dovuto confrontare Aldrich), è altrettanto evidente la conseguenza “certa” che quasi sempre il regista è riuscito a ridimensionare a proprio vantaggio anche soggetti mediocri e lontani dal suo universo emozionale, facendoli lievitare, nonostante le origini, in direzioni spesso così lontane dagli intenti produttivi che li avevano resi operativi, da farli poi diventare, per chi sa “leggere” oltre le apparenze, fortemente spiazzanti (persino eversivi a volte), pregni cioè della carica provocatoria e dissacrante tipica del regista che ne rappresenta il “marchio” e la “garanzia”.
Il discorso calza a pennello anche per i comunque straordinari risultati raggiunti con questa pellicola, se analizzati appunto con l’ottica “espansiva” sopra definita, perché se qualcuno poteva ancora ostinarsi in quegli anni ad ignorare la “qualità” formale della sua opera (fortunatamente però in questo caso il plotone negazionista era già allora meno numeroso e compatto del solito), una seria e ragionata “revisione” a posteriori (nel 1978 mancavano solo gli ultimi due titoli a completare il percorso artistico di questo atipico, particolarissimo “autore”) doveva inevitabilmente mettere per lo meno in evidenza come proprio in Millie, il suo primo vero contatto con le fragilità del “femminile”, fossero ravvisabili i prodromi, i “germogli” seminali delle disturbate psicologie che avrebbero poi preso vita e forma con inusitato vigore, nei demistificanti lavori realizzati negli anni successivi (tutti già disponibili alla visione), con i quali si sarebbe esercitato, con sopraffina attitudine metalinguistica e nuova disincantata perfidia, a rimettere in movimento la distruzione programmatica di molti tabù e a costruire ben più biliose rappresentazioni del mondo dello spettacolo e del cinema in particolare, mettendo a fuoco un articolato “serraglio” di anomale donne che appunto trovavano in Millie (e nel suo masochismo), la propria devasta origine. Mi riferisco ovviamente a Jane e a sua sorella Blanche, ma anche alle deformate, traumatizzanti, colpevoli ossessioni di Carlotta, oltre che alle “vischiose” presenze di June Buckridge e delle sue amichette (con particolare riferimento alla succube dipendenza quasi schiavizzata della giovane “Childie”) che animano uno dei più “misconosciuti” vertici della sua creatività (L’assassinio di Sister George). Ma possono rientrare benissimo in questa complessa casistica psicopatologica, anche la Miss Blandish di Grissom Gange soprattutto Elsa Brinkmann, la disarmante e disarmata protagonista di Quando muore una stella, disponibile ed arrendevole materia predisposta per essere fatalmente plagiata con le necrofile suggestioni del mito, e trasferita nella “leggenda di Lylah Clare”, attraverso una progressiva e distruttiva traslazione identificativa fra “persona reale” e “icona del modello” che finirà per annientarla anche fisicamente.
Aldrich però ha dovuto farci il callo a simili colpevoli omissioni, certamente motivate da un eccessivo ed ingiustificato snobismo nei suoi confronti, poichè (soprattutto nella sua America), ha solo marginalmente goduto del privilegio di essere riconosciuto per l’artista che era, nonostante il suo indubbio valore, anche di fronte ad opere con una regia compatta e problematica come questa. Se ne ha una riprova tangibile analizzando un volume come Cinema e psichiatria (Psychiatry and the Cinema in originale) che è del 1999, ma che nella versione ampliata e aggiornata rieditata anche in Italia nel 2004 nella prestigiosa collana dei saggi dell’editore Raffaello Cortina, è ancora disponibile sugli scaffali delle nostre librerie. Ebbene, dentro questo titolo così specialistico, scritto da Glen O. Gabbard[1] e da Krin Gabband[2], che è davvero una analisi esaustiva a 360° degli “stretti rapporti” esistenti fra cinema e psicanalisi studiati e vivisezionati da varie angolazioni visive come meglio non sarebbe stato possibile fare, sia per i riferimenti specifici che riguardano le opere che trattano direttamente le tematiche corrispondenti, che per la selezione accurata che è stata fatta (a mio avviso persino con esasperazioni un pò “forzose”) alla ricerca di possibili relazioni che permettano “letture” anche marginalmente orientate in quell’ottica di tutto ciò che è passato sullo schermo (magari semplicemente per la controversa psiche di coloro che ne sono stati i realizzatori, e si citano en passan titoli come Capitan Blood, Return of the Terror o Cinque pezzi facili, tanto per dire quanto vasto e azzardato è stato l’excursus, mentre un intero capitolo è dedicato addirittura a Casablanca/Curtiz) non solo non viene citato Foglie d’autunno che rappresenta invece un complesso, articolato compendio di “traumatizzazioni” e “asservimenti” che potrebbe benissimo essere preso come pratica esemplificazione dei molteplici “complessi” e disturbi definibili come freudiani, ma neanche viene chiamato in causa direttamente o incidentalmente il nome del regista che è invece a buon diritto fra quelli che con l’insieme della sua opera ha più di altri (che qui fanno figura in bella mostra), esplorato e raccontato con spudorata cattiveria, le pericolose divergenze della mente.
IL FILM
Ritornando al film in questione, in origine programmato come The Way We Are, poi modificato però in Autumn Leaves, proprio al fine di capitalizzare il successo della canzone di Kosma/Prévert nella gettonata versione americana di Nat King Cole (che è poi il principale, suggestivo tema musicale della pellicola), sappiamo che è stato girato in un relativamente breve lasso di tempo (non più di 40 giorni), e che era stato messo in cantiere dalla Columbia con il principale obiettivo di rilanciare la carriera un po’ in declino di una ormai stagionata Joan Crawford (già oltre la cinquantina). Una pellicola ad hoc dunque (destinata soprattutto al pubblico femminile) al completo servizio della star, che non era più la stella incontrastata di un tempo, quella cioè che aveva illuminato il firmamento divistico prima della MGM e poi della Warner Bros, ma che non aveva però perso nessuna delle caratteristiche un po’ bizzose che la contraddistinguevano. Il suo essere dispoticamente invadente, creò infatti all’inizio, come era prevedibile, qualche dissidio con il regista messole a disposizione (Aldrich per l’appunto) che fu però bravissimo a “domarla” in breve tempo (riuscendo perfino ad impedirle di interferire sulla sceneggiatura che l’attrice voleva rendere più omogenea ai sui bisogni). Aldrich si dimostrò comunque collaborativo su altri fronti, riconoscendo alla Crawford proprio quella intelligente capacità di esprimere “alla sua maniera” il dolore malinconico di una tribolazione solitaria tutta interiorizzata nello sguardo che l’avrebbe fatta definire da qualche malevolo critico, come l’interprete “con più ore di sofferenza sulle spalle di tutta la storia del cinema hollywoodiano”. Resta comunque il fatto che si creò in breve tempo fra i due un proficuo rapporto di amicizia e di reciproca stima che si protrasse per lo meno fino a Baby Jane, che rese appunto possibili e creative le due memorabili collaborazioni che conosciamo.
L’interesse di Aldrich a far parte della squadra, sappiamo per certo che fu motivato soprattutto dalla possibilità di esplorare nuovi sentieri non soltanto formali, lavorando su una storia originale scritta e sceneggiata da un team di autori fra i quali campeggiavano i nomi di Jean Rouverol e Hugo Butler da lui particolarmente stimati (e fu proprio questa una delle ragioni del suo puntiglioso accanimento nel voler lasciare inalterato lo script senza intromissioni esterne che avrebbero potuto snaturarne il senso).
La scelta dell’interprete maschile fu invece abbastanza movimentata: la Crawford avrebbe infatti voluto al suo fianco nientemeno che Marlon Brando, per sfruttare il “peso” della sua popolarità, ma la produzione rispose negativamente, forse preoccupata per le frizioni che ne potevano derivare (o magari semplicemente spaventata dalla possibile lievitazione dei costi, non ci è dato di conoscere con esattezza le motivazioni del rifiuto). Tramontata quella candidatura, si provinarono alcuni nomi della folta schiera di promesse in cerca di gloria che la scuderia Columbia aveva sotto contratto, fa i quali Kervin Matthews, fra tutti il più “apprezzato” da Aldrich, stando alla testimonianza dello stesso attore (il regista lo ritroverà poi sul set di The Garment Jungle), ma per alcuni “inconciliabili” contrasti caratteriali con la protagonista, si optò per l’allora altrettanto sconosciuto, ma più gradito Cliff Robertson, qui al suo primo ruolo importante (aveva al suo attivo una parte secondaria da “antagonista” in Picnicaccanto alla Novak e a William Holden), certamente in possesso del necessario “physique du rôle”, ma forse non ancora sufficientemente maturo per una parte così impegnativa (per la maggioranza della critica, un interprete esageratamente stralunato e sopra le righe nel mettere in evidenza le nevrosi del personaggio, da rasentare spesso il ridicolo).
E’ una storia di sicuro impatto emotivo (ma senza molte pretese “artistiche”) quella che ci viene rappresentata, concepita per un pubblico femminile incline al fazzoletto e alla lacrima facile, che, se non ci fosse Aldrich con la sua regia a sorreggerla, si avvicinerebbe pericolosamente alla corrività di una soap opera (anche per un eccesso di enfatica ridondanza in alcuni dialoghi), così infarcita com’è di contorsioni ad effetto e di reiterati colpi di scena ben disseminati nel tracciato. Grazie invece al lavoro del regista, alle sue intuizioni narrative e alla straordinaria adesione della Crawford alla dolente personalità della protagonista, è nel risultato finale, qualcosa di più e di meglio, un progetto “anonimo” che si trasforma in una inquietante introspezione psicologica dentro i traumi dell’anima che si riflettono in quelli della mente. Se in effetti all’apparenza sembra solo un burrascoso, masochistico melodramma della solitudine, la rude, crudele, appassionata spigolosità della messa in scena che sembra quasi scolpita con una scure, ma di quelle che sanno anche lavorare di cesello per lasciare spazio alle raffinate “concessioni” dei dettagli (qui tutt’altro che secondari), lo fa diventare una delle operazioni più ardite e strutturate del regista, una pellicola con la quale poi in effetti Aldrich, mischiando ancora una volta a suo piacimento le carte, ci mostra da par suo di che lacrime grondi e di che sangue l’istituzione familiare, fino a farla diventare un tragico condensato di ossessioni, dove il tema principale (oltre al masochismo e a una reiterata misoginia dello sguardo) diventa, volenti o nolenti, quello dell’incesto (“proprio” o “improprio”, declinato cioè in tutte le sue ipotetiche possibilità reali o di pensiero), fra irrisolti complessi di Edipo, tradimenti, sfiduciati abbandoni alla resa e clamorose rivelazioni che definiscono la natura traumatica non solo dei morbosi rapporti che si avviluppano fra loro, ma anche della malattia bugiardo-compulsiva che devasta la mente di Burt. Una straordinaria ”combinazione” ben amalgamata di melodramma e grandguignol la definì a suo tempo con felice intuizione Richard Roud, mentre per Dan Callahan è il gioiello segreto del regista, un film che non perde mai la sua carica di tensione ansiogena, oltre che la necessaria lucidità dello sguardo, nel rappresentare le raccapriccianti implicazioni psicologiche di irrisolti rapporti parentali (e non lasciamoci fuorviare dal finale “positivista” che diventa qui più che in altri casi, una usurata convenzionalità di comodo).
E’ straordinario notare come anche in un contesto apparentemente a lui alieno come questo, Aldrich riesca a non perdere mai la bussola, dominando pienamente la materia, fino a piegarla quasi senza farsene accorgere, proprio ai suoi voleri.
Freud, se fosse stato ancora in vita, avrebbe potuto utilizzare la pellicola per una elaborazione coordinata delle sue teorie, e trarne così un saggio esplicativo di conferma sulla veridicità delle sue asserzioni, ma tutto ciò (il calderone è rigurgitante davvero di molte perverse suggestioni) è inusualmente tratteggiato con una modalità tutto sommato poco “esposta”, che si riproduce in una rappresentazione certamente drammatica, ma quasi normalizzata, dei sentimenti, e forse proprio per questo in “controtendenza” rispetto all’abituale modello del regista. E’ evidente dunque che l’ipotetica collisione collassante fra lo stile duro e corrosivo di Aldrich e il materiale da romanzo rosa a sua disposizione (ma di quelli che fanno intravedere, nonostante l’increspatura della superficie, quanto fango si celi in fondo all’acqua), qui non si verifica, anzi, prende vigore l’ingegno della costruzione proprio dal contrasto evidente che ne deriva.
Pur essendo il suo primo contatto con il “dramma psicologico” (che per altro “sembrava” essergli poco congeniale), Aldrich mantiene magistralmente una ammirevole linearità espositiva che non ammette sbavature, nel raccontare derive - non solo sentimentali - attraverso una analisi “impietosamente” centrata sui particolari che diventano reiterate e martellanti, quasi opprimenti “disarmonie” disturbanti (il perpetuo, ripetuto scricchiolio della porta dell’appartamento di Millie, con il quale per altro si apre e si chiude magnificamente l’opera; l’incertezza malinconica dei sorrisi della donna; il suo frenetico, disperato aggirarsi quasi da animale in gabbia nei corridoi dell’ospedale dove è stato ricoverato il marito, in attesa di notizie sul suo stato di salute mentale; le sue esitazioni prima di rispondere al telefono).
Fra le scene particolarmente significative da tenere in evidenza, c’è quella drammaticamente importante nella quale l’iroso e fuori di testa Burt scaraventa con estrema violenza a macchina da scrivere sulle mani della donna ferendola gravemente, non tanto per il fatto in sé, ma per l’analisi strutturale che può essere fatta proprio delle reazioni di Millie, nella rassegnata forza della sua esposizione del dolore resa con controllata e veritiera naturalezza: un’attrice di minor talento e professionalità, sarebbe stata deleteria andando ben oltre, sciupando così il pathos che invece si crea, e si trasforma in un coinvolgente rapporto empatico con il pubblico fruitore.
Il montaggio del girato (di Michael Luciano, abituale collaboratore del regista), decisamente meno “convenzionale” di quanto può sembrare di primo acchito, contribuisce egregiamente a tenere alto il ritmo e la partecipazione, così come risulta di eccellente creatività il bellissimo, chiaroscurato bianco e nero della fotografia di Charles Lang, operatore d’elezione della Crawford (qui se non erro al suo quarto “rapporto fiduciario” con l’attrice) capace di restituirci tutta l’intensità della tragedia nel lancinante splendore di un contrastato bilanciamento dei toni e delle sfumature, oltre che nel sapiente gioco delle luci che illuminano i volti (o meglio, spesso i loro particolari). L’adeguata partitura di supporto che si amalgama perfettamente con il suggestivo tema musicale del titolo più volte utilizzato, è invece di Hans J. Salter.
Passando agli interpreti, la Crawford come abbiamo visto, è qui una straordinaria “mater dolorosa”, colma di rassegnazione e di fredda disillusione, masochisticamente piegata dal destino e dalla sorte. La sua è davvero una prova di ineccepibile fattura, fra le migliori della maturità.
Alle giustificate perplessità che suscita Cliff Robertson nel disegnare i “contrasti” psicologici della mente di Burt, abbiamo già accennato, fra continui, estenuanti, ostentati piagnistei ed eccessi d’ira esasperati oltre misura (la ciliegina – in negativo – sulla torta, è rappresentata certamente da quel suo folle sguardo sbarrato che si intravede a tratti dallo spiraglio della porta), ma per chi non disdegna l’overacting, i sussulti offerti da questa debordante, sovraccarica, teatralizzata performance, sono garantiti.
Vera Miles (la malvagia ed egoista “prima moglie”), ci dà del personaggio affidatole, una interpretazione affusolata ed aguzza, nel caratteristico prototipo di quella che può essere definita ancora una volta come la “femme fatale” della situazione, ma transita sullo schermo così brevemente, da lasciare davvero poche tracce della sua presenza, al di là della funzionalità pratica del ruolo per l’evoluzione e gli sviluppi della storia.
Il padre “fedifrago” è rappresentato invece da un misurato intervento di Lorne Greene (qualcuno lo ricorderà di più e meglio per le fortunate serie televisive di Bonanza e Galactica che sono poi quelle che lo hanno reso famoso), ma la statura negativa del personaggio, avrebbe forse richiesto una più incisiva riconoscibilità personalizzata rispetto a ciò che invece ci viene offerto: decisamente schematico il tratteggio del suo “vilain” di maniera, e tale da risultare schiacciato (nel bene e nel male) fra gli eccessi (quelli di Roberts) e la bravura (della Crawford).
LA STORIA (ATTENZIONE CONTIENE SPOILER)
La protagonista di Autumn Leavesè Millie Wetherby, una ancora avvenente zitella di mezza età, di professione dattilografa freelance, che conduce una ormai solitaria e routiniera esistenza davvero scarsa di affetti e di amicizie (se si escludono le occasionali visite della sua padrona di casa, si può dire che non ha una vera e propria “vita sociale”). Ha trascorso infatti la maggior parte dei suoi anni giovanili prendendosi cura di un padre invalido (riviviamo il suo sofferto passato in un breve, ma significativo flashback) perdendo lentamente illusioni e speranze, e diventando per questo sempre più triste ed ingrigita. Sarà Burt Hanson, un uomo molto più giovane di lei (il divario degli anni è tale che potrebbe essergli addirittura figlio) conosciuto casualmente in un ristorante, a costringerla di nuovo a confrontarsi con il prepotente risveglio dei sensi. L’attrazione per quel ragazzone impertinente che le fa una assidua ed insistente corte riempiendola di premurose attenzioni, è fortissima, ma il gap generazionale che li separa è tale, da renderla giustamente titubante: è una donna di buon senso e tenterà per questo di opporsi con tenacia a quel tardivo innamoramento, respingendo l’uomo (un ex, valoroso combattente) con giustificate obiezioni, ma alla fine sarà costretta a cedere al sentimento che la travolge e ad accettare, anche se con una certa riluttanza iniziale, la sua proposta di matrimonio. I due coroneranno così il loro sogno d’amore e vivranno insieme un breve periodo di intensa felicità. Ben presto però l’uomo si rivelerà molto più problematico e contorto e verranno a galla così, non solo le tantissime bugie che ha raccontato sul suo passato, ma anche la gravi turbe di una mente psichicamente instabile, quasi schizofrenica, spesso persino confusa e pericolosamente oscillante verso atti di esasperata violenza. L’arrivo della sua precedente moglie, che busserà inaspettata alla porta di Mille per raccontare una “differente verità” e per reclamare i suoi presunti diritti, metteranno la donna nella condizione di dover davvero fronteggiare le drammatiche problematiche del suo uomo, afflitto da una depressione così devastante da diventare distruttiva. Cercherà in tutti i modi di salvarlo dai suoi demoni risalendo alle origini della sofferenza, e scoprirà che le ragioni del disadattamento del giovane sono dovute proprio al tradimento della sua ex, da lui colta in “flagranza di reato”, un adulterio reso ancor più bieco perché compiuto proprio con il suocero, e quindi per Ben doppiamente destabilizzante. Sempre più masochisticamente legata a quella senile passione quasi maternale, la donna, resasi conto della impossibilità di farcela da sola, riuscirà a far internare il marito in una clinica psichiatrica dalla quale, grazie anche all’aiuto di un competente terapeuta, l’uomo uscirà finalmente guarito dalle proprie ossessioni, così da assicurare alla storia il necessario happy-end richiesto dai canoni e dalle convenzioni dell’epoca.
[1] Direttore dell’Istituto di psicoanalisi di Topeka e Professore di Psichiatria presso la facoltà di Medicina dell’Università del Kansas a Wichita, è autore di numerosi volumi, fra cui Psichiatria psicodinamica, anch’esso pubblicato in Italia dall’editore Cortina nel 1995, oltre che essere responsabile della sezione cinematografica dell’International Journal of Psycho-Analysis
[2] Docente di cinema, letteratura e cultural studios alla State University di New York a Stony Brook
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