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L'adultera

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su L'adultera

di (spopola) 1726792
6 stelle

E’ di nuovo l’inconscio (la terra in cui tutto è presente e nulla può essere dimenticato) la linfa vitale di una regia che si concretizza in una claustrofobica cornice circoscritta che assume il ruolo di elemento catalizzante e metaforizzato particolarmente indicato per far esplodere i drammi e le contraddizioni della coppia all’arrivo dell’intruso

Non è certo un film che si pone fra il maggiori risultati del Maestro (per alcuni critici, e cito il Morandini, addirittura il suo più brutto in assoluto). Potremo considerarlo dunque più che parzialmente irrisolto,  un percorso realizzato riproponendo molte delle modalità espressive del suo cinema, in un momento in cui forse latitava un poco l’ispirazione (gioca a mio avviso in negativo anche la “contaminazione” hollywoodiana che una volta tanto costringe Bergman a fare i conti col sistema produttivo americano interessato soprattutto al ritorno economico, e che definirei prioritariamente “mercantile”, che richiede inevitabili adeguamenti anche strutturali che è difficile mediare, ed ai quali è “obbligatorio” sottostare).

Quasi un Bergman che “fa il verso” a Bergman allora (questa volta forse con meno Strindberg e molto più Freud, Jung e Kierkegard, comunque) così che prendono il sopravvento le metafore, sempre presenti, ma qui utilizzate a volte a scapito di una introspezione forse un tantino più superficiale e di maniera del solito  (certamente  meno incisiva e avvolgente), appesantita da  preziosismi visivi troppo insistiti e un po’ farraginosi oltre che da discutibili soluzioni narrative che rendono  meno empaticamente  coinvolgente la penetrazione di tematiche che sono poi quelle “classiche” della sua poetica, ma che qui trovano una rispondenza “esemplare” e pregevolmente ammaliante sopratutto nella straordinaria prova degli interpreti, primi fra tutti – e non ci sarebbe certo bisogno di citarne la loro aderenza anche “elettiva” – Max Von Sydow e Bibi Andersson, come al solito eccellenti  (ma anche il “corpo estraneo” rappresentato da Elliot Gould, se la cava egregiamente,  riesce ad integrarsi e a fondersi senza creare scompensi e squilibri, e non è davvero merito da poco se si considerano le sue divergenze “formative” che avrebbero potuto spingerlo ad esibirsi in maniera più stridente e disorganica  creando qualche inaccettabile frizione, che invece evita con la classe del talento).

Intendiamoci però: Bergman è sempre Bergman e anche questa volta nonostante i rischi di un eccesso di formalismo espanso che a volte lo portano in prossimità di una discutibilissima esornatività molto vicina al kitch, se la cava nel complesso più che decorosamente, ci offre un’opera problematica meno  penetrante del suo consueto, ma altrettanto  complessa nelle sue valenze interpretative, che sembra voler riprendere da differenti angolazioni spunti e “movimenti” già abbozzati o definiti in altre sue precedenti pellicole per ribadire o chiarire meglio certi concetti e persino certi “cedimenti” (tutt’altro che una semplice questione di corna, insomma, come invece la traduzione in italiano del titolo ne L’adultera sembrerebbe forse voler mettere  – erroneamente però – in primo piano,  fuorviando non di poco l’ipotetica asse portante del punto di vista  di uno spettatore che non conoscesse a sufficienza l’iter artistico dell’autore ed avesse per questo difficoltà a districarsi con agilità nei meandri labirintici di un citazionismo indotto tutt’altro che referenziale, ma che nasce invece da una specifica esigenza di “scavare” ulteriormente alla ricerca dell’essenza).

Anziché liquidare il tutto nel segno della mediocrità, come molti hanno già fatto a suo tempo, preferisco allora “tentare” di analizzare  questa non riuscitissima fatica, utilizzando in primo luogo le analogie e i riferimenti, e soprattutto collocandola nel momento esatto della sua “maturazione” che è certamente corrispondente a un periodo di stasi e di passaggio, visto che viene dopo Passione e Il rito, e precede non tanto Scene da un matrimonio, che in qualche maniera potrebbe ancora essere considerato un risultato “similare”, ma le lacerazioni devastanti e tragiche di Sussurri e grida che forniranno davvero nuovi importanti spunti di riflessione e differenti ipotesi di lettura, ripercorrendo anche a ritroso il suo inimitabile lavoro di analisi e di approfondita analisi del subconscio.

Ripartirò per questo allora proprio dal titolo, ricordando che Bergman ha inteso chiamare questo film Beroringen, che in italiano significa il tarlo (e forse basta soltanto questa non marginale precisazione per far modificare radicalmente la percezione, poiché è proprio quello scavare cunicoli sempre più ramificati dentro le nostre menti e i pensieri, questo scarnificare l’anima, analogamente a ciò che avviene dentro a un pezzo di legno infestato dall’insetto, ciò che ha inteso rappresentare, un rovello che è anche privato e personale dal quale prendono avvio proprio le divergenze delle progressive dissoluzioni amorose e dei tradimenti ad esse connesse e conseguenti.

La trama della vicenda ha in effetti un contrappunto importantissimo esemplificato dal regista con reiterate sottolineature visive, nella esposizione in parallelo della storia  di una scultura in legno raffigurante il sereno sorriso di una  arcaica Madonna che tiene in braccio il Bambino Gesù. La statua, rimasta celata alla luce e alla vista  per diversi secoli, murata e “protetta” dietro un muro della navata, viene alfine ritrovata, disseppellita e riportata alla luce. Ma a contatto con le sollecitazioni dell’esterno, intere colonie di insetti  che prima giacevano in letargo. si risvegliano fameliche, e incominciano voraci la loro progressiva opera di distruzione corrodendola inesorabilmente dall’interno.  La statua è dunque condannata alla putrefazione (una allegoria tanto più evidente se si tiene conto  che il processo in atto si sviluppa proprio in parallelo ai “riti” relativi alla riconsacrazione della chiesa che l’aveva occultata per così tanto tempo, e dentro la quale rimarrà “esposta” la sua decomposizione progressiva). Una simbologia dunque decisamente ambivalente, che rimanda a molteplici significati di complessa interpretazione, come per esempio  il motivo centrale  -  per altro già presente in differente forma anche ne Il rito  - dell’arte come “astrazione”, un’arte  sempre più rarefatta e “lontana” dalla reale consistenza della vita, che definirei proprio per questa ragione “non più pertinente” (la religione ufficiale ridotta a  sterile rito mentre si corrompono e si sgretolano con sempre maggior vigore le fondamenta originarie della fede, che è poi una concezione che rimanda a una tematica  molto cara e vicina al pensiero kierkegardiano). Non è però certamente questo l’unico elemento su cui focalizzare l’attenzione. E’ importante infatti  concentrarsi anche sulla serena (im)mobilità di una forma iconografica  ormai minata da un male  inesorabile  e “interiore” che – rapportata all’umana concezione della vita - si potrebbe sintetizzare  in una estrinsecazione piuttosto terrorizzante, che è poi quella del progressivo annullamento dell’anima stessa, un processo che diventa inarrestabile e incontrovertibile da creare un disagio che chiamerei “esistenziale”.

Anche le vicende narrate allora, articolate con apparente  convenzionalità sui drammi del triangolo amoroso che si determina nel “tradimento”, se interpretate in questa chiave acquistano significati ben più inquietanti e profondi.

Ancora una volta è la donna che ha il “privilegio” della conoscenza, visto che è  Karin,  l’adultera, quella che ha “capito” che persino la vita è “rito” e ripetizione, ne è cosciente e consapevole (e anche profondamente “toccata” dalla rivelazione che sembra non lasciarle scampo e  soprattutto non le consente di ottenere adeguate risposte ai sui bisogni). Per contro, le figure del marito dell’amante   che di primo acchito potevano essere  considerate più che complementari,  alternative e contrapposte (vita etica  contro vita estetica, se riferite a una lettura filosofica ancora di stampo kierkegardiano;  Super-io contro Es, in un’ottica indirizzata al contrario in direzione di Freud e della sua scuola psicologica) si rivelano invece del tutto  interscambiabili, poichè ognuno finisce  per configurarsi come il momentaneo “rovesciamento dell’uno nell’altro” perdendo così di una autonomia che è poi soprattutto  “differenziazione”. Anche  Karin percepisce questa omogeneicità, e  non può quindi che prendere piena coscienza del fatto che fare una selezione  e assumersi le proprie responsabilità anche nel campo delle priorità affettive sarebbe fuorviante e inutile poiché non è il problema prioritario che l’assilla, né  riguarda la semplicistica  alternativa di dover scegliere il proprio futuro tra il marito, David e l’amante Andrea. Il suo bisogno primario è semmai quello di voler avere un figlio, ma diventa per lei da subito indifferente (e soprattutto ininfluente) che il padre sia l’uno o l’altro, e in questa prospettiva “unificata” c’è il disorientamento profondo di un disequilibrio e di una “sofferenza”, anche perché il triangolo sembra presentarsi all’inizio  organizzato secondo una specifica, schematica “tipologia” significativamente  legata a una iconografia del “maschile” che definirei di ascendenza junghiana: da una parte il marito Andrea, nel quale si potrebbe configurare la classica figura dell’uomo flemmatico ed estroverso ma “sensibile” (la sicurezza che annoia); dall’altra, invece, lo straniero “destabilizzante”, il tipo romantico-passionale-introverso capace di alterare e rompere i difficili equilibri di una coppia in crisi, l’anomala figura che con la sua semplice presenza, intromettendosi nella vita e nei sentimenti, può creare la necessaria discontinuità, importante per ritrovare uno stimolo. Ma quel tarlo che “corrodere” dall’interno, è proprio dentro la donna, ed è do dofferente natura, diventa il rovello che la costringerà invece a riportare ai suoi occhi entrambe  le presenze  alle marginali e labili sembianze sfuggenti di due possibilità astratte (il “mezzo” per, anziché “colui” che) parallelamente risucchiate dentro un identico “lutto” che potrebbe essere definito “dell’assenza”,  che equivale al definitivo annullamento del sentimento amoroso.

Questo tarlo, che lentamente corrompe nel tempo più che la carne il pensiero, ha l’analoga funzione che aveva  nella sua  inesorabile scansione temporale,  l’ossessivo tic-tac (equivalenti anche gli effetti destabilizzanti di una volutamente “disturbata” percezione offerta allo spettatore) dell’orologio che gelidamente contrappuntava le inquadrature  chiave che mettevano in evidenza la profonda crisi di Anna in Passione (e non è certamente un caso allora che sia proprio un orologio l’elemento sul quale si concentra l’attenzione anche dello sguardo di Karin, nella stanza della clinica in cui giace il corpo  della madre all’inizio del film, prima che i titoli di testa passino un colpo di spugna sul pianto disperato  della donna,  mentre in sottofondo prende corpo il suono più distensivo e conciliante di un carillon  e la macchina da presa sposta la sua visuale aprendosi in panoramica,  su un campo di fiori, che è poi identificheremo come quello che circonda la casa di Andrea).

Il tempo come mera successione senza sviluppo che in entrambe le opere esemplifica la vita abbandonata dall’anima (Ugo Finetti), dunque. E all’anima che abbandona la vita lasciandola nella dimensione artificiosa e sospesa della morte, allude anche il ricorrente richiamo visivo ai fiori, un leitmotiv che ritorna più volte con differenti valenze ed implicazioni che vanno dalla illusoria serenità della scena iniziale, all’incontro finale tra David e Karin nella serra, denso e problematico, mentre anche i colori, via via che si degrada verso l’epilogo,  perdono lentamente ma irrimediabilmente  il loro originario abbacinante smalto cromatico per spegnersi  progressivamente  in una gamma sempre più uniforme di  smorte e “impastate” tonalità più uniformi e neutre. E la dimensione luttuosa della vita abbandonata dall’anima, è esemplificata, come già accadeva nel sopraccitato Passione, dal motivo delle fotografie che fissano  in gelide istantanee quasi stranianti, i momenti di una vita già vissuta, che sembra incapace  di precludere a possibili ulteriori sviluppi, e che è ridotta ormai a un’accozzaglia  di successioni casuali, discontinue e chiuse come in una spirale ripiegata su se stessa.  Si dissolvono in parte i colori e le forme, dunque, mentre la dimensione del vissuto si cristallizza in un ingrandimento fotografico un po’ sgranato, tutti elementi  che contribuiscono a “marcare” il percorso di Karin verso “il silenzio” (un’altra delle tematiche quasi ossessive che attraversano trasversalmente  i momenti centrali dell’epopea artistica di Bergman), quel “silenzio” che è poi la mancanza di una risposta “certa”, che assume  le sembianze proprio dei primi piani di quelle istantanee minate da un “tarlo” che riduce la vita  - uomini, animali e vegetali – a natura morta (Ugo Finetti)  mentre la donna si trascina solitaria  nella casa del marito  che le è diventata totalmente estranea (un po’ come il bambino  errabondo che vagava dentro l’albero liberty della città immaginaria di Timoka ne Il silenzio) e non le appartiene più.

Secondo Aristarco,  quando Karin chiama Andrea  socchiudendo un uscio nel buio nella casa deserta,  la scena e il senso ci rimandano tutt’altro che casualmente, alle parole del Sacrestano Algot  in “Luci d’inverno”, quelle con le quali ci viene ricordato che il momento in cui Gesù soffre maggiormente, è quando chiama, senza avere risposta, il Padre nei cieli.  Ipotesi  azzardata, e supposizione magari  un tantino ardita, ma inquietante, che ci porterebbe allora, sia pure in una dimensione più “carnale” e terrena, ad identificare ancora una volta questo “inutile chiamare senza ricevere alcuna risposta”, come “l’urlo” cristiano che angosciò Martin Lutero e che Kierkegard definì il silenzio di Dio (e in questa dimensione allora, se l’ipotesi diventasse “certezza”, potrei a mia volta azzardare che anche  nell’apparentemente minore, bizzarro e più corrivo Beroringen   è presente invece come tema dominante - magari “semplicemente più nascosto e metaforizzato” - il senso religioso dell’abbandono e del lutto esistenziale, e che è proprio di fronte a questo aspetto spettrale dell’accadere che deflagra l’urlo esistenziale di Karin).

Ma il “tarlo” si esemplifica ancora in  altre variate, differenti modalità: quando Karin  si reca a Londra con l’obiettivo di avere una estrema, “necessaria” spiegazione con David, per esempio. Troverà invece una casa disadorna, con gli interni svuotati per il trasloco in atto, simile in tutto alla vuota presenza della casa in Svezia e lo spazio le apparirà  quasi annullato,  preda di un disfacimento interiore fortemente disturbante e “disarmante” che sarà forse la ragione primaria che la indurrà a prendere la decisione di ripartire senza aspettare il  ritorno  dell’amante, semplicemente dopo aver parlato con sua sorella,  un altro personaggio tutt’altro che secondario con cui Bergman lascia intravedere l’esistenza di un rapporto incestuoso fra i due (il tarlo contaminante del peccato). Una sorella dunque a sua volta “tarata” e minata anche esteriormente, da una malattia che le deforma le mani, che è il “male” che affligge anche David. Karin allora osservandola, parlando con lei, riesce a guardare e vedere distintamente anche l’oltre di David, l’immagine ossessiva  di quell’altro da sé che lo perseguita, identifica così anche quel tarlo esistenziale che lo “trasforma”, mutandolo a sua volta in “natura morta” e senza futuro.

Sempre Finetti, analizzando non solo questa pellicola, ma l’opera del regista in generale, parla anche di una dimensione poetica tipica della corrente espressionista, chiaramente espressa e alla quale non si sottrae nemmeno questo titolo,  che si estrinseca  in una bipolarità tutt’atro che contrapposta, ma consequenziale, fatta di “urlo” e “geometria”.

La geometria di Bergman però (così come “l’urlo”9 riguarda essenzialmente  la costruzione psicologica delle storie e dei personaggi (Freud e Jung soprattutto in questo caso). Di conseguenza è ancora una volta proprio l’inconscio e la sua geometrica percezione (particolarmente quello che nell’accezione freudiana viene definito come la terra in cui tutto è presente e nulla può essere dimenticato) uno degli elementi che diventa componente determinante e linfa vitale della regia,  delle sue regie, e che si concretizza  non casualmente in una parte preponderante delle sue opere, a partire da quelle giovanili, per transitare da Come in uno specchio, L’ora del lupo, La vergogna, Passione e Persona oltre che in questo Beroringen, nella  claustrofobica cornice “circoscritta” dell’isola, che è spesso poi quella consueta e a lui familiare anche per motivi strettamente personali, di Farö, che assume il ruolo di elemento catalizzante e metaforizzato, particolarmente indicato per far esplodere i drammi e le contraddizioni.

In Beroringen poi, anche il montaggio un po’ a scatti, che sembra voler selezionare i momenti e le situazioni in modo abbastanza discontinuo e a volte persino dissociativo (si pensi alla scena iniziale di David con Karin e Andrea) trae origine dalla volontà di rappresentare così anche nella forma, proprio il criterio geometrico-psicanalitico dell’interpretazione a cui accennavo sopra: vengono di conseguenza estrapolati attimi, sguardi, frasi, movimenti, smozzicature di dialogo, che se nel  contesto realistico possono apparire come secondari ed ininfluenti, una volta isolati e correlati fra loro assumono invece un’importanza ben più determinante, diventano il momento essenziale della verifica critica, oltre che l’oggetto di una solitaria e individuale ma necessaria  elaborazione di un pensiero e di uno stato che diventa a sua volta non solo fonte di meditazione, ma anche ossessione.

Si può dire in sintesi allora (e sono ancora parole di Finetti), che l’inconscio è il processo “geometrico” che prorompe e fa esplodere la maschera dei protagonisti?. Credo proprio di sì. poiché Bergman fa parlare in diverse circostanze,  seguendo appunto più l’inconscio che la razionalità cosciente del pensiero, i tre protagonisti che formano i lati contrapposti del triangolo amoroso: freddamente e convenzionalmente composti l’uno di fronte all’altro, quasi “manierati”, improvvisamente implodono e  le loro labbra si aprono  loro malgrado, per investire l’interlocutore a freddo con agghiaccianti dichiarazioni che emergono dirompenti e prioritarie dal di dentro, tutt’altro me meditate, ma spontanee ed inevitabili e per questo ancor più destabilizzanti e terribili.

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