Regia di Milos Forman vedi scheda film
Amadeus è indubbiamente una delle opere più mature e riuscite della prolifica e produttiva carriera americana di Milos Forman.
Nel parlarne però credo che non sia possibile prescindere in alcun modo dal testo teatrale di riferimento, poiché l’impianto “strutturale” (con i necessari aggiornamenti per il passaggio dalle assi del palcoscenico allo schermo cinematografico) è e rimane proprio quello (non a caso a curare l’adattamento che gli valse addirittura un Oscar nel 1985 per la migliore sceneggiatura non originale, è stato proprio Peter Shaffer[1] che è poi lo “scandaloso” autore della piece – e cercherò di dire più avanti perché e in quale senso ho utilizzato il termine “scandaloso”).
Nella versione cinematografica risulta comunque abbastanza stemperata la forte carica di caustica ironia che permeava la commedia originale. Immagino però – visto che a condurne la scrittura è ancora Shaffer - che questo spostamento dell’asse verso una dimensione più “drammatica” sia stata una variazione richiesta ed ottenuta proprio da Forman perché più corrispondente e conforme al suo modo di fare cinema e al particolare disegno che aveva in testa per l’opera che si sarebbe poi apprestato a realizzare.
In un certo senso questo processo di riscrittura aiuta egregiamente ad asciugare il testo anche di una certa “verbosità” che è poi un problema che inquina (affligge) spesso la produzione (anche quella più blasonata) di questo importante autore teatrale che ha la peculiarità speciale di lavorare intorno ad argomenti non solo insolitamente “stuzzicanti”, ma anche un po’ spiazzanti per le inusuali, singolarissime prospettive che propongono (nel caso specifico la tesi sposata dallo scrittore e poi ripresa integralmente dal regista, è quella che era già stata espressa da Puškin nel suo dramma in versi Mozart e Salieri).
Credo infatti che sia stato il “controllo” imposto da Forman a tutta la materia a compiere questo “miracolo” (inteso come l’eliminazione del superfluo che c’era nel testo di partenza e rendere così notevolmente più fluido l’andamento narrativo della storia). Lo ha fatto ricorrendo soprattutto alla sua virtuosistica visionarietà un po’ baroccheggiante (le scene nel teatro) sorretta però dalla forma inappuntabile di una messa in scena vivace e mai “pacchiana” che conferma la sua profonda conoscenza della sintassi cinematografica che gli ha permesso di raggiungere questo eccellente risultato assumendosi persino il rischio di andare a volte un po’ “sopra le righe” (vedi per esempio l’interpretazione comunque efficacissima di un esagitatissimo Tom Hulce nei panni di un Mozart scosso sovente da una risata quasi stridente, nevroticamente insistita, acuta e grottescamente irriverente la cui prova è da “gustare” soprattutto nella versione originale poiché il doppiaggio – soprattutto quello più recente - non gli rende piena giustizia) senza che questo abbia minimamente inquinato il risultato nonostante qualche piccolo eccesso per troppa generosità “dimostrativa”.
Fatto sta che anche per Shaffer sarà questa la prima e unica volta che un suo testo (sempre alla ricerca enfatica di un qualcosa di insolito capace di meravigliare – o di “sconvolgere” – disorientando un poco lo spettatore ), raggiungerà questo perfetto equilibrio nella sua trasposizione in immagini, poiché niente di tutto ciò si era verificato in precedenza, non solo con le prolisse riduzioni cinematografiche di altri suoi fondamentali testi quali Esercizio a cinque dita in origine scritto per John Gielgud e portato sullo schermo nel 1962 e Equus del 1977 (nonostante che questa volta al timone ci fosse il grande Sidney Lumet), storia di un diciassettenne che acceca sei cavalli e del suo psicanalista che ne tenta la diagnosi e la cura, ma anche con quello che a mio avviso resta il suo copione più “stimolante” e di maggiore impegno anche “politico” (parlo del dramma La grande strage nell’impero del sole” diretto per lo schermo da Irving Lerner nel 1969 incentrato sull’incontro/scontro - ancora una volta “arbitrariamente” condotto senza curarsi molto della “perfetta” aderenza storica degli avvenimenti narrati - fra l’ambigua figura di Pizarro e il mitico Atahualpa che si concluderà con la ferocia di quel “massacro” di sangue che causerà appunto la definitiva distruzione dell’impero degli Incas e la messa al rogo del suo capo)[2].
Anche nel caso di questo Amadeus si va dunque a ricercare lo “scandalo” di una tesi azzardata (solo supposta e mai provata) che ha lasciato perplessi i mozartiani di stretta osservanza che hanno avuto molto da eccepire sulla fedeltà storica della rappresentazione (con particolare riferimento alle troppe libertà prese per raccontare la genesi del celebre Requiem) e addirittura imbestialire lo sparuto gruppo di devoti salieriani incapaci di accettare sportivamente questa comunque “inappuntabile” e un tantino fantasiosa lettura dei fatti e delle circostanze che attribuisce a questo musicista minore un’ accidia delittuosa che forse non gli apparteneva proprio (o solo in parte).
A noi però poco interessa di simili possibili inesattezze, perché il procedimento narrativo (che trae proprio da queste sue approssimazioni gran parte della sua forza) non ambisce assolutamente a voler essere la rappresentazione ”documentale” di una “biografia” codificata e totalmente rispettosa della Storia, ma si pone al contrario l’obiettivo (perfettamente centrato) di porre la sua attenzione su quello che si potrebbe definire un percorso di “dannazione” – al di là dunque di ogni possibile arbitrio rispetto all’effettivo svolgimento dei fatti - che vuole essere anche una seria riflessione sul detestabile e meschino sentimento dell’invidia, oltre che sul contrasto fra “talento” e “mediocrità”. Il tutto, letto e rivissuto attraverso gli occhi e le “deformazioni” di uno sguardo “di parte”, peraltro viziato dall’astioso, rabbioso rancore dell’uomo/artista che – fra i due contendenti - era il meno dotato: l’ambizioso Salieri schiacciato - e in un certo senso “umiliato”- dall’estro creativo del genio di Mozart (prodigioso già dalla sua prima infanzia) e dalla sua dirompente vitalità.
Il risultato che Forman raggiunge è sotto gli occhi di tutti (ed è davvero eccellente). Come giustamente scrivono Di Giammatteo e la Bragaglia, il film resta un bell’esercizio di bravura da parte di un regista che conosce – si potrebbe dire – tutti i trucchi del mestiere e che sa che proprio di questo vive il cinema di pregio anche quando eccede un poco o ‘stona’’ come sembra che qualche volta accada in questa pellicola, ma è solo un’impressione passeggera.
A tutti gli effetti dunque, questo rimane uno dei titoli più “celebrati” e rappresentativi del cinema di fine millennio, un ritorno alla grande di Forman ai vertici sublimi della sua arte dopo il deludente “Ragtime” difficilmente valutabile per le pesanti intromissioni della produzione. Forse più “accademico” che in altre sue opere, ma nulla di più. Con Amadeus infatti il regista non raggiunge la perfetta fusione fra pathos e impegno del suo capolavoro assoluto Qualcuno volò sul nido del cuculo, né la giocosa libertà espressiva di Hair, ma ci va comunque abbastanza vicino.
Il film si conferma insomma come un’opera preziosa che utilizza al meglio l’incanto “evocativo” della musica mozartiana già da sola più che sufficiente per creare una appassionata e coinvolgente atmosfera, peraltro amplificata a dismisura da una lussureggiante ambientazione (la smagliante scenografia di Karl ?zerny e Patrizia von Brandenstein, coadiuvati da Francesco Chianese – credo) dai magnifici costumi di Theodor Pistek, dal trucco di Paul LeBlanc e Dick Smith, oltre che dalla superlativa fotografia (raffinatissima) di Miroslav Ond?í?ek (vero e proprio valore aggiunto) che ci restituisce “reinventandola” come altro luogo deputato, una Praga da sogno, ricreando magistralmente proprio la magia fascinosa di questa città attraversata da anime (e fermenti) così diversificati e sublimi. Potremo allora definirlo anche un commovente, nostalgie accorato “omaggio” alle sue origini (quello di Forman che a Praga ci è proprio nato) che fa della sua città un “altrove” fascinoso e squisitamente personale che restituisce luce e visibilità alla Vienna imperiale della storia, e al tempo stesso mantiene intatto tutto il trasporto emotivo di una “celebrazione amorosa” verso la sua Cecoslovacchia “perduta” ma rimasta saldamente ancorata al suo cuore.
Da non dimenticare nemmeno la sontuosa colonna sonora: non solo le travolgenti musiche di Mozart che non potevano certo mancare, ma anche quelle – tutte da riscoprire – del suo rivale Antonio Salieri, oltre a quelle di Giovanbattista Pergolesi, di Simon Preston (Salieri March’s), di Jaroslav Krcek (arrangiamenti di musiche popolari ceche e boeme) e di Alan Boustead (le “rivisitazioni parodiche” delle melodie mozartiane).
Anche le prove degli attori sono di ottimo livello: si parte da quella di F. Murray Abrham (spesso “diabolicamente” inquadrato dal basso, con una illuminazione fortemente contrastata su fondali neri, che rende ancor più evidente la mefistofelica dimensione del suo essere più che malvagio, vendicativamente “cattivo”) a cui sono affidati i panni del bigotto Salieri che gli fecero guadagnare un Oscar; comprende le prestazioni ugualmente intense di Elisabeth Berridge (Costanza Mozart), Roy Dotrice (Leopold Mozart), Simon Callow (Emanuel Schikaneder), Christine Ebersole (Caterina Cavalieri), Charles Kay (il conte Orsini-Rosenberg), Jeffrey Jones (l’imperatore Giuseppe II) e si conclude con l’altrettanto maiuscola esibizione muscolare fornita dall’”insostituibile”, funambolico Tom Hulce (che avrebbe meritato una carriera meno schizofrenica di quella che il sistema hollywoodiano è stato in grado di offrirgli) piena di “tic” e di ardite intemperanze che ben disegna l’innata genialità rozza nei modi e nei costumi ma empaticamente coinvolgente, del giovane Mozart.
Grandissimo successo internazionale insomma che gli valse anche una valanga di altisonanti riconoscimenti. Oltre a quella per la sceneggiatura e per il miglior attore infatti, Amadeus si portò a casa altre sei statuette (miglior film, miglior regia, migliori costumi, miglior trucco, miglior sonoro e miglior scenografia), ma questa è solo la punta dell'iceberg di una infinità di premi che hanno stigmatizzato l'importanza "epocale" di questa pellicola.
Forse Salieri non era così torvo e strisciante come viene qui rappresentato, né si è macchiato dei misfatti che gli vengono attribuiti, ma importa qualcosa se il risultato è di così alto spessore anche morale e si esemplifica attraverso un esemplare viaggio che a sua volta diventa esplorazione e scandaglio dei paurosi meandri mentali dentro ai quali si dibatte l’animo umano (e spesso soccombe), oltre che una analisi altrettanto profonda delle degenerazioni dovute a una stizzosa rivalità “macerativa” che diventa un’ossessione?
Sinossi (attenzione: spoiler)
Nel 1823 dentro al manicomio di Vienna in cui è ricoverato il musicista di Corte Antonio Salieri dopo essere stato trovato riverso sul pavimento di casa farneticante e sporco di sangue per aver tentato di tagliarsi la gola, l’uomo confessa a un prete il suo tremendo segreto: quello di aver consumato la propria vita nel tentativo di distruggere Mozart, a suo vedere volgare e libertino, e soprattutto reo di avergli scippato il successo, la benevolenza del sovrano oltre che di aver sedotto la cantante italiana da lui amata. Un uomo insomma a suo dire indegno dei doni che aveva ricevuto dal celo e così spudorato da essersi addirittura cinicamente approfittato di un lutto (la morte del padre Leopoldo) per ricavare lo spunto su cui comporre poi la musica di un capolavoro come Don Giovanni. In un impeto di rabbia, Salieri spezza un crocifisso e medita la sua vendetta. Per raggiunger il suo scopo, si presenterà poi mascherato a Mozart per commissionargli una Messa da Requiem (ma con l’intento di appropriarsene e farla sua). La partitura resterà incompiuta come ben sappiamo e il film ce ne racconta le possibili ragioni. Accanto al letto del morente, sarà ancora Salieri a farsi dettare nota per nota la partitura, mentre la salma di Mozart dopo la sua dipartita, verrà tumulata in una fossa comune e senza troppi onori……
[1] Nato da una famiglia di origine ebra a Liverpool il 15 maggio del 1926, Peter Levin Shaffer approdò abbastanza tardi alla scrittura per il teatro, ottenendo però da subito un clamoroso successo (i suoi drammi più importanti, scritti fra il 1958 e il 1979, hanno avuto tutti una versione cinematografica, escluso – se non ricordo male – Black Comedy, rocambolesca commedia degli equivoci che ha per protagonista uno scultore squattrinato che invita a cena per “motivi di carattere economico” un ricco milionario e il suo futuro suocero in un contesto quasi surreale causato da un improvviso, indesiderato e prolungatissimo black-out che proprio sul più bello, li priva della luce, e che sconvolgerà di conseguenza tutta la serata, costretti come sono ad interagire fra loro di fatto senza vedersi (ma in piena luce per gli spettatori che potranno così seguire in clima decisamente surreale, gli esilaranti imbarazzi quando non veri e propri “corti circuiti” che ne derivano). La commedia ebbe un notevole successo anche in Italia con la regia e le scene di Franco Zeffirelli e l’interpretazione di Giancarlo Giannini, Annamaria Guarnieri, Milena Vukotic, Gianni Bonagura, Gianna Piaz, Luigi Pavese e Carlo Croccolo.
[2] Ancora due parole per chiarire meglio ciò che forse è già intuibile dalla lettura di questo paragrafo, e mi riferisco a ciò che intendevo dire definendo “scandaloso” il teatro di Shaffer (forse sarebbe stato più appropriato il termine “sensazionalista”). Si tratta infatti della spasmodica ricerca da parte dell’autore, di temi inusuali – o di interpretazioni anche distorcenti, ma tali da sollecitare “nel bene e nel male”, sia l’interesse anche voyeuristico sia dello spettatore che della critica, che è poi la caratteristica più peculiare che ha determinato il grande successo del suo percorso creativo nella seconda metà del novecento. Non si sottrae a tali “dettati” nemmeno l’opera d’esordio, quell’ Esercizio a cinque dita che si muoveva nel terreno privilegiato – particolarmente fertile in quegli anni – di molti teatranti che operavano “controcorrente” in quella che veniva considerata come la “rinascita avanguardistica” dell’epoca, né la rilettura “drammaticizzata” dell’eccidio degli Incas a cui ho accennato prima de La grande strage dell’impero del sole, un testo che ho davvero studiato a fondo (e che avrei voluto poter realizzare scenicamente quando facevo ancora teatro, un progetto lungamente accarezzato ma mai andato in porto a causa dell’impossibilità di ottenere “a basso costo” la concessione dei diritti d’autore strettamente tenuti in pugno a prezzi troppo esosi dall’ingordo agente teatrale che rappresentava lo scrittore per l’Italia), né tantomeno la psicanalisi d’accatto di Equus”e il suo giovane protagonista che cavalca nudo e senza sella, il “paradosso” fra buio e luce di Black Comedy (forse fra tutte la sua più innocua realizzazione), o l’il “sensazionalismo” di Amadeus.
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