Regia di Daniele Luchetti vedi scheda film
Il rischio dei film corali, da Grand Hotel in giù, è che si risolvano in un bozzettismo di maniera. La necessità di differenziare in qualche modo i personaggi-tasselli del puzzle, anche quando la narrazione è sorretta da una solida sceneggiatura, sfocia facilmente in una caratterizzazione psicologica di grana grossa o volutamente caricaturale. È un rischio a cui non sfugge La scuola, ennesimo avatar della commedia all'italiana e, inevitabilmente, ennesima rappresentazione del becerume italiota, la cui varia umanità è praticamente tutta incasellabile in categorie prevedibili: il docente idealista (presumibilmente di sinistra), il docente burbero (presumibilmente di destra, tanto per rispettare la sana propensione nazionale alle polarizzazioni ideologico-politiche), la bellona di buon senso e buon cuore, il cinico disilluso dai toni eversivi, il preside dall'ignoranza caprina, la maestrina ansiosa, la stessa massa informe degli alunni, che si dirama a sua volta in un'altra campionatura di categorie sociologiche e psicologiche non prive di interesse, ma altrettanto scontate. Con pochissime eccezioni, una parata di mostri, da un lato all'altro della cattedra. Sul piano estetico il problema di fondo è capire fino a che punto Luchetti e gli sceneggiatori abbiano inteso raffigurare la realtà della scuola italiana negli anni '90, sia pure con quegli eccessi formali che il nostro cinema riesce di rado a scrollarsi di dosso, o se invece l'ambientazione scolastica sia solo un pretesto per incardinare tra loro scenette e figurine, di cui alcune tra le più consuete della nostra tradizione cinematografica. O, peggio ancora, per titillare i ricordi di scuola degli spettatori, fatalmente popolati da professori deficienti e giovanotti in gamba (ricordate Gian Burrasca, classe 1907?). Data l'origine autobiografica della sceneggiatura (i tre volumi di Domenico Starnone sulle sue esperienze didattiche), è logico presumere che la risposta giusta sia la prima, e che il film voglia a un certo punto sollevarsi dallo status di semplice commediola per alimentare una riflessione su ciò che di valido e meno valido esiste nel nostro sistema scolastico. Ma gli spunti in questo senso appaiono pochini: è da preferire l'approccio didattico progressista di Vivaldi-Orlando, improntato alla crescita morale dei discenti ma fallimentare nella trasmissione di contenuti peraltro troppo ambiziosi, o quello, speculare, di Sperone-Bentivoglio (la cui recitazione macchiettistica è forse la cosa peggiore del film)? È vero che, come accusa Vivaldi, la scuola italiana funziona solo per quelli che non ne hanno bisogno? E fino a che punto si può dare ragione allo stesso Vivaldi quando ribatte al vicepreside, il quale rivendica la legittimità di un insegnamento professionalizzante, che allora vada a lavorare in un ufficio di collocamento? È veramente giusto tracciare una linea di demarcazione così netta tra scuola e lavoro in tempi bui come i nostri, quando da ogni parte si dovrebbe invocare piuttosto una continuità tra queste due fasi della vita? Sono questioni serie, anzi serissime, che il film solleva spesso attraverso battute estemporanee, ma che non affronta se non di striscio. Idem per gli spunti metaforici: il crollo del soffitto dell'edificio scolastico sembra andare di pari passo con lo sfacelo morale e materiale del contesto generale, ma non sarebbe una visione un po' qualunquistica? In altri termini, il messaggio del film sarebbe che nella scuola italiana è tutto allo sfascio, tranne quella umanità destrutturata che si ritrova casualmente in certi docenti (eccellenti in questo senso le prove d'attore di Silvio Orlando e Anna Galiena), ma che, comunque, non si traduce in effettivo trasferimento di saperi. L'ex alunno Cicciomessere, oggi poliziotto, spiega a Vivaldi di non aver mai dimenticato la sua lezione sulla Lettera rubata di E. A. Poe nelle sue perquisizioni. Ma al professore che gli chiede quante volte la cosa cercata fosse effettivamente nascosta nel posto più evidente, come nel racconto di Poe, risponde sconsolatamente: "Mai!". Insomma, non c'è più nulla di sacro: né la scuola come istituzione, né i professori come exempla di moralità, né tanto meno il canone culturale e gli elementi di convivenza civile che la scuola avrebbe il compito di veicolare alle giovani generazioni. L'onda post-sessantottina del riflusso travolge tutto. Povero Poe, poveri noi.
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