Regia di Roman Polanski vedi scheda film
Un grandissimo Polanski trasforma la fremente sostanza del dramma nella concentrata essenza del thriller: una tensione fitta ed incalzante accompagna i protagonisti attraverso un percorso disseminato di lame di coltello, costringendoli, da un lato, a rivivere un passato atroce, dall'altro, a fare i conti con un presente che continua a mostrarsi crudelmente ambiguo. L’impianto claustrofobico e teatrale intesse la storia come un filo laboriosamente intrecciato intorno a tre dita. Tre sono, infatti, i personaggi che, in un interno notturno, nella penombra della menzogna, della follia e dell’ignoranza, si contendono il primato sulla luce della verità: Roberto, che forse è stato un aguzzino del deposto regime, però nega tutto; Paulina, che afferma di essere stata una sua vittima, ma ha problemi psichici; Gerardo, l’inquirente nominato dal governo, che, tuttavia, dimostra di sapere poco. Il primo professa strenuamente la propria onestà, la seconda rivendica fermamente la propria lucidità, il terzo si arrocca rigidamente in un’incredulità travestita da obiettività e competenza; e intanto, in mezzo a loro, mentre la rabbia, la disperazione ed il sadismo stanno prendendo il sopravvento, un terribile dubbio si dibatte tra le due sconvolgenti alternative, l’irresponsabile condanna a morte di un innocente o la sconsiderata assoluzione di un cinico torturatore. Il dilemma è opprimente come un cappio intorno alla gola, perché il tempo stringe, e la contorta vicenda preme per giungere ad una soluzione, dato che la resistenza fisica ha un limite, la voglia di vendetta si fa sempre più imperiosa, e, con l’arrivo del giorno, quel sinistro rito processuale rischia di essere scoperto. Il violento turbine che travolge i tre personaggi è una vorticosa miscela di tutte le forme di umana impotenza: quelle che impediscono di capire la realtà, di dominare gli istinti, di riconoscere i propri errori. Sullo sfondo rimangono la libertà formale della ritrovata democrazia, e il rigore asettico dell’incarico giuridico istituzionale, che sanciscono, sulla carta, il ritorno della pace, dello stato di diritto, dell’uguaglianza, ma non possono cancellare i misfatti che sono rimasti incisi per sempre nei corpi e nelle menti di chi li ha subiti, e nelle coscienze di chi li ha commessi. La memoria è un marchio a fuoco, ed è da questo residuo di incendio che, a distanza di anni, e malgrado i profondi rivolgimenti storici, divampa la tragedia descritta in questo film. Il titolo, non a caso, si riferisce ad un’opera immortale che è divenuta un ricordo indelebilmente condiviso dal carnefice e dalla sua vittima: una triste melodia di Schubert che, da un mangiacassette, faceva da lugubre colonna sonora alle sevizie. Quelle note ritornano, dal passato, riecheggiando nell’animo come gli acuti di un incubo devastante; ma poi si depositano, nel pensiero dell’oggi, come un concreto indizio di colpevolezza, e arrivano infine ad apparire, agli occhi del cuore, come la traccia di un briciolo di umanità superstite. L’iniziale cecità diventa prima chiarezza su ciò che è accaduto, e poi comprensione per le altrui debolezze: La morte e la fanciulla è, dunque, come l’omonimo quartetto per archi, un grido di dolore che, nonostante tutto, alla fine riesce, affidandosi alla ragione ed all’amore, a darsi disciplina ed armonia, e a farsi musica.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta