Regia di Alain Resnais vedi scheda film
Un'attrice francese (Emmanuelle Riva) si trova ad Hiroshima per girare un film "sulla pace" che ricordi il terribile attacco atomico che subì la città giapponese alla fine della seconda guerra mondiale. Durante il periodo delle riprese ha modo di conoscere un architetto giapponese (Eiji Okada) e tra i due scoppia una cocente passione amorosa. Basta una notte per fare di quest’incontro un qualcosa che potrebbe trasformarsi per entrambi nell’amore di una vita. E basta un giorno perché la donna trovi nell’uomo la persona adatta per raccontare anche a sé stessa le pene che gli divorano l’anima. Ha infatti l'occasione per riannodare i fili della memoria e ricordare l'amore provato per un ufficiale tedesco durante il periodo del secondo conflitto mondiale, quando viveva immersa nella verde campagna di Nevers. Un amore che gli venne portato via dalla guerra. Era da allora che non provava dei sentimenti così forti per un uomo, ed era da allora che qualcuno gli aveva offerto l'occasione di poterlo ricordare. Ma il giorno dei saluti è vicino e la lontananza fa prevalere la paura di dimenticarsi sul serenao godimento di un bel sentimento.
Uscito dalla sapiente penna di Marguerite Duras, “Hiroshima mon amour” di Alain Resnais è uno di quei film che ti fa avvertire nitida la presenza della macchina cinema, che avvolge e coinvolge la fascinosa storia d'amore dei due amanti per farne il tramite attraverso cui viene dimostrata tutta la sua potenza visiva. È un film dalla forma espansa, suscettibile di svilupparsi lungo almeno tre direttive narrative : la struggente storia d'amore tra l'uomo e la donna, la riflessione sullo scorrere del tempo e il senso della storia e il confronto dato dall’esperienza vissuta con il carattere lenitivo e castrante insieme dei sentimenti. Tre momenti distinti che non possono però essere pensati distintamente, fosse solo perché sullo sfondo si avverte la presenza della guerra raccontata in tempo di pace, ed è questo binomio apodittico a fornire il ritmo ad una storia d’amore che nasce già con la consapevolezza di doversi confrontare con il peso delle rinunce. Lo suggerisce la regia, che plana sulla storia con l'intento preciso di specificare il peso del fuori campo dentro la forma recalcitrante delle parole non dette. E lo impone il montaggio, che usa il linguaggio filologico del flashback per legare in una continua alternanza di sensazioni mutevoli i dolori del passato con le cicatrici del presente. Il risultato è un affascinante arabesco sentimentale che scava abissi di fragilità nelle anime in pena di due solitudini, un uomo e una donna che all’improvviso scoprono insieme di poter essere amanti per la vita. La forma film che ne deriva è quella voluta dalla contaminazione dei rispettivi caratteri e dalla vicendevole voglia di tenerezza. Perché l'uomo e la donna sono avvinti dal peso dei ricordi e della paura di dimenticare, complici insieme nel voler intraprendere un viaggio insolito nei retaggi più profondi della memoria, che scoprono sulla loro pelle essere incandescente tanto è palese il calore contagioso della passione.
Il tema della memoria è stato sempre centrale nel cinema di al Alain Resnais. Ricordiamo il suo “Notte e nebbia”, uno dei documenti visivi più belli e “realisticamente” incisivi nel penetrare l'orrore del nazismo. E ancora, “Tutta la memoria del mondo”, un omaggio solenne alla grande Biblioteca di Parigi, un luogo dov’è custodito una memoria libresca di inestimabile valore storiografico. Ma se in questi film la memoria rimane un oggetto vivo grazie al carattere documentario che gli è stato conferito, in “Hiroshima mon amour” la memoria cerca di rimanere elemento vitale attraverso la compromessa emotività dei protagonisti, che a loro insaputa si sono messi ad imbastire una lotta impari contro lo scorrere del tempo e il divenire imperioso della storia. Ecco allora che il tema portante diventa quello della dimenticanza (così come sarà anche nel successivo e altrettanto affascinante "L'anno scorso a Marianbad"), che si fa strada tra fiumi di parole e sensazioni mute per cercare di dare un senso all’oltraggiosa presenza dell’inevitabile.
“Che bello avere qualcuno qualche volta”, dice la donna all'uomo, parole molto emblematiche che fanno emerge il potere consolatorio del raccontare e del raccontarsi, del ricordare e del non essere dimenticati (appunto). La donna racconta all'uomo di un suo vecchio amore e mentre il ricordo doloroso di quel sentimento strappatogli drammaticamente dalla guerra gli procura almeno il conforto di aver sottratto una bella pagina di vita alla definitiva vittoria dell’oblio, si vede costretta a confrontarlo con una sorte che gli sembra ripetersi uguale.
La guerra, con la sua conta di morte e distruzione, è ormai lontana, ma rimane imbrigliata nel tempo storico attraverso le ferite che ha lasciato a cicatrizzare. È la storia che rimane sullo sfondo ad agire in trasparenza a rendere questa relazione d’amore molto più enigmatica di quanto è “normalmente” richiesto ai tumulti dell’animo. È il ricordo tragico che evoca Hiroshima a rendere la carne una materia liquida, che nel mentre brucia di desiderio per l'amore di un giorno, vive con la convinzione che è preferibile non investire in inutili illusioni.
La donna incontra un uomo che l'aiuta a ricordare le forme dimenticate di un dolce amore, e lo fa attraverso la vicinanza di un sentimento giovane che gli sembra stia assumendo quegli stessi attributi. Ecco, la sofferenza della donna sta tutta in questa ambiguità di fondo che regge la sua sorte esistenziale, nel fatto che nel momento stesso in cui sta godendo di un piacere ritrovato realizza che quel piacere non potrà mai essere per sempre. "È probabile che noi moriremo senza esserci più rivisti”, dice infatti ad un certo punto la donna. Perché ambiguo e l'atto stesso del dimenticare. Da un lato, dimenticare può significare cessare di provare dolore. Dall'altro lato, occorre ammettere che se un amore può essere dimenticato vuol dire che non c'è speranza per l'idea di un amore capace di riaccendere una vita. Se non abbattendo le barriere dello spazio e del tempo, se non sfidando la lontananza con le strade della memoria e fare della successione dei ricordi una storia "amica" che si rinnova tutti i giorni.
“Tu mi uccidi, tu mi fai bene. Piangeremo la morte del giorno con coscienza e buona volontà. Non avremo più nient'altro da fare, più niente che piangere il giorno che muore. Passerà il tempo, tempo solamente. Poi un giorno noi non sapremo più nominare ciò che ci unisce. Il nome si cancellerà poco a poco dalla nostra memoria. Poi sparirà del tutto”. Questo dice la donna poco prima del probabile addio. Quando decidono di chiamarsi rispettivamente Nevers e Hiroshima. Proprio come i nomi di due città simbolo per la loro esperienza di vita : l’una “teatro di una guerra senza fine”, l’altra “simbolo di una pace da ritrovare”. Due città lontanissime che finiscono per guardarsi allo specchio, proprio come l'amore di un giorno che potrebbe finire per somigliare a quello che dura una vita intera. Forse decidono in questo modo di legare in un unico flusso della memoria il passato e il presente. Forse scelgono allo stesso istante di dare alla memoria del loro incontro dei nomi riconoscibili. Per non dimenticare e non dimenticarsi. Per lasciarsi nella mente quel diritto alla felicità che nessuna guerra e nessun dolore può far scomparire del tutto. Capolavoro ancora affascinante.
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