Regia di Mario Martone vedi scheda film
"Sentivo la città disciolta nel calore, sotto una luce grigia e polverosa, e ripassavo mentalmente il racconto dell'infanzia e dell'adolescenza che mi spingeva a divagare per la Veterinaria fino all'Orto Botanico, o per le pietre sempre umide, coperte di verdure marce, del mercato di Sant'Antonio Abate. Avevo l'impressione che mia madre si stesse portando via anche i luoghi, anche i nomi delle vie."
La notizia inaspettata della morte della madre riporta Delia a Napoli. Una dipartita tragica e violenta, quella di Amalia, come tragiche e violente erano state le vite di entrambe: l'anziana donna galleggia inerme sulle acque grigie del golfo con indosso solo un reggiseno rosso. La figlia se la figura nella mente, accanto a qualche sparuto ricordo rimosso vuoi di un passato lontanissimo vuoi dei giorni precedenti. I fatti, i pensieri, le emozioni non sono chiari. Forse l'unica certezza è la volontà ferrea di Delia di prendere le distanze da tutto ciò che appartiene alla sua vita lì, prima che si trasferisse in una città del nord e del nord prendesse gli abiti appropriati un po' asessuati, il tono della voce calmo, l'utilizzo asettico dell'italiano, gli occhialini come schermo e riparo per gli occhi ed insieme strumento di indagine semi-scientifica (Elena Ferrante, l'autrice, dirà che questa trovata di Martone, non presente nel libro,sarà una delle più felici). Ma certo Amalia è presente: più che mai ora, che non c'è più. In una città che la figlia riconosce benissimo nelle sue strade, nella gente ma che ha ripudiato con convinzione. Una città che non sa affermare la propria identità se non nel degrado: perchè ogni bellezza qui ha perso coscienza di sé in una snaturalizzazione selvaggia che da antica capitale ha portato Napoli ad essere solo capitale della periferia. Rumorosa, disordinata, cementificata. L'impossibilità di vivere quotidianamente la meraviglia di ciò che avrebbe da offrire con la propria storia, l'anima più autentica ma innocente, in un centro che è posticciamente turistico a partire dalla marina, ed i rioni che più sono esterni più sono centrali (sorrido pensando alla Stefania del Sorrentino vomerese che dirà "Roma è collettivismo puro"). Amalia che le figlie sempre difesero e sostennero contro gli uomini del suo piccolo universo casalingo, tutti squallidi, prevaricatori, sciocchi e approfittatori persino. Anche Delia è figlia: fu sul serio sempre dalla sua parte? Carpendo l'essenza di quella donna strana e misteriosa ai suoi occhi? O invece la respinse, persino tradì, come oggi fa con il suo territorio che si aggrappa alle sue viscere eppure ne è estraneo?
Mario Martone firma una sceneggiatura (in parte collaborando con la stessa Elena Ferrante) discontinua per un film imperfetto come altrimenti non potrebbe essere, visto che il regista è uomo e le tematiche sono tutte femminili. Il dilemma irrisolto resta sempre quello del rapporto con il soggetto letterario: se ad esso si guarda "L'amore molesto" cinematografico è l'estrema semplificazione di quello del romanzo. Se si circoscrive il ruolo del secondo, il primo vive di una vita propria emanando una luce drammatica eppure leggera per nulla sgradevole. Il testo trova tutta la propria qualità (sopravvalutata, a mio avviso. Ma è un parere personale e comunque non inerente al contesto in essere) in una crudezza aggressiva e disperata, si legga la descrizione dei sentimenti della protagonista al funerale della madre: "il liquido caldo che usciva da me senza che volessi mi diede l'impressione di un segnale convenuto fra estranei dentro il mio corpo.....Ad un certo punto temetti che il sangue cominciasse a scorrermi lungo le caviglie.... Zii prozii cognati cugini cominciarono ad abbracciarci a turno....alcuni mi strinsero con una tale forza e versando lacrime così copiose che oscillai tra un senso di soffocamento ed un'insopportabile sensazione d'umido che mi si allungava dai loro sudori e dalle loro lacrime fino all'inguine, all'attaccatura delle cosce". Martone stempera. Da un lato donandoci un lavoro più comprensibile - anche allo spettatore che giustamente non conoscesse la materia di partenza - più digeribile - alcune tematiche sono intrinsecamente solo femminili, ed andavano, gioco-forza, generalizzate; dall'altro ammorbidendo troppo. Soprattutto appiattendo le personalità in campo sull'unica Delia. Probabilmente una scelta dettata da ragioni pratiche, "sfruttando" appieno un'attrice come la Bonaiuto, che sta davanti alla macchina da presa incessantemente per 104 minuti quando invece più spazio si sarebbe dovuto dare al fulcro della narrazione, che è Amalia e non Delia (tra l'altro, una giusta Licia Maglietta). Perchè è sul corpo di Amalia che si sono giocate le problematiche che scoppieranno solo poi, solo come conseguenza, sula figlia. E "L'amore molesto" del titolo è quello straniante fra le due donne: mai riappacificate completamente. Lontane. Anche nel finale, quando la figlia accoglie l'identità materna, ma facendolo abdicando alla propria. Martone ne dà una lettura positiva, consolatoria e sorridente che stride però con l'ambiguità letteraria. Che sottintende invece la sconfitta totale: l'annullamento di Delia nella follia. Nella stessa misura in cui Amalia si era finalmente "liberata" da sé e per sé, ma proprio in quel momento, aveva deciso, o subito, la morte.
La sceneggiatura, appunto .... Alcuni momenti risultano del tutto superflui - ma deboli anche nel romanzo! Pensiamo alla figura di Caserta che non è mai sul serio dettagliata ma si perde in minuti vuoti di definizione dell'indefinitezza, fra ascensori e rampe di scale (merito all'atmosfera, quantomeno). Pensiamo soprattutto ad Antonio, collante un po' posticcio fra presente e passato, fra una prima parte ed una seconda quando si svelerà il malessere della protagonista. Le scene al negozio di biancheria potevano essere più concise, esattamente come quelle al ristorante: minuti sprecati. A ben guardare pure quelle del contatto in sauna e nella piscina: Antonio avrebbe potuto e dovuto essere, ma non lo è, strumento di espressione di una tematica che Martone non affronta mai (o schematizza solo con l'utilizzo di un vestito rosso) e cioé il disagio profondo che prova la protagonista per il proprio corpo: "Mi spogliai e mi tolsi l'assorbente interno: le mestruazioni parevano bruscamente finite. Avvolsi il tampone nella carta igienica e lo gettai nel cestino....Con una mano, attento a non disturbare la mia che gli stringeva il membro sotto la stoffa, mi stava carezzand il sesso con foga eccessiva...Ma io non avvertivo nient'altro che quel piacere diffuso, gradevole e tuttavia non urgente. Ero sicura da tempo che non avrei mai superato quella soglia. Dovevo solo aspettare che lui eiaculasse." Nessuna menzione nel film alla anorgarmia, alla fissazione sul ciclo mestruale, al rifiuto sottinteso ma evidente alla maternità. Certo, rimane la solitudine, che è evidente: ma non chiaro se casuale o voluta (volutissima...). Troppo velato - dalla assenza di una delle due protagoniste - il cuore del conflitto. E cioé la fisicità prorompente della madre: una sessualità esibita perchè impossibile da nascondere, allegra perché consapevole e quindi, necessariamente colpevole. Colpevole perchè invidiata. Da tutti: dagli uomini che non la sanno controllare, dalla figlia stessa che non sa gestire la propria (e sapremo alla fine anche il perché). Se Martone spinge su una immedesimazione gratificante e positiva di Delia in Amalia, il senso del testo di riferimento è esattamente il contrario: non c'è liberazione per la prima. Piuttosto, solo ossessione.
Se sulla sceneggiatura dunque parecchi dubbi resistono - non ultimo, la decisione di esplicitare un finale che forse avrebbe meritato più ambiguità (e mi riferisco al fuoco in spiaggia) - più felice l'esito registico. Il film vive di momenti ispirati: la scelta delle inquadrature (soprattutto negli interni) la scelta di stare spesso addosso alla protagonista, il girovagare per le strade del centro (bellissima la scelta della tarantella che riporta alle radici arcaiche ed istintive della nostra essenza di umani. D'altronde qui di istinti e di repressione si parla), la scena del ricordo della violenza, narrata con efficacia e scioltezza anche di montaggio sorprendente.
Buona prova di Anna Buonaiuto soprattutto per quanto riguarda la recitazione "corporea". Meno mi ha convinta nelle espressioni del volto e credo sia un po' mancata sui toni più drammatici (può essere che sia stato un registro concordato, comunque). C'è da dire che aveva fra le mani un ruolo che la maggior parte delle attrici italiane della sua generazione hanno solo sognato nei sogni più fantastici ed assurdi! A Martone il merito di averlo reso possibile. Praticamente muta eppure incisiva Licia Maglietta e ottima Angela Luce. Bene tutti gli altri (forse più da caratterizzare Caserta: Giovanni Viglietti)
Fotografia di Luca Bigazzi, che quell'ovvio color seppia sbiadito forse poteva risparmiarcelo, comunque. Ma che, lontano da stereotipi estetici di facile bellezza o bruttezza, rende protagonista una città tanto reale e riconoscibile quanto incapace di riconoscersi. Di mostrarsi al meglio di sé. Fra interventi snaturati, riqualificazioni ed abusi. Tanto amata quanto abbandonata da chi doveva amarla.
"Non mi interessava più la storia tra lui e mia madre: desideravo solo confessare ad alta voce che, allora e dopo, avevo odiato non lui, forse nemmeno mio padre: soltanto Amalia. Era a lei che volevo fare del male. Perchè mi aveva lasciata nel mondo a giocare da sola con le parole della menzogna, senza misura, senza verità.... Ero lì accanto a lei e tremavo. Persino le stelle, così fitte d'estate, mi sembravo bagliori del mio smarrimento. Ero a tal punto decisa a diventare diversa da lei, che perdevo a una a una le ragioni per assomigliarle... Amalia c'era stata. Io ero Amalia."
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