Regia di Matt Winn vedi scheda film
The Hoarder è un thriller/horror britannico più che dignitoso. Non è certo un capolavoro, sono perlopiù ingredienti già utilizzati, ma in tal caso sono molto ben miscelati e proposti con garbo e dignità, compreso un finale intelligentemente non convenzionale.
The Hoarder è un thriller/horror britannico (proporzionalmente prevale il thriller sull’horror, quest’ultimo è solo accennato inizialmente per fuorviare gli spettatori), e già questo costituisce preventivamente una differenza favorevole nel presceglierlo, rispetto alla concorrenza made in USA, molto più dozzinale e consumistica che sforna prodotti superficiali e spettacolaristici, anche se alcuni cliché e stereotipi coesistono in entrambe le culture cinematografiche, soprattutto in questo genere di film, come la scarsa valorizzazione dell’apporto femminile. Su quest’ultimo aspetto, mentre nei film americani le donne sono solo soggetti-oggetti di contorno e vittime sacrificali, ed anche se protagoniste sono sempre descritte con tratti ed attribuzioni di una stupidità inaudita, urlanti ed imbranate all’inverosimile, in questo film britannico non si infierisce più di tanto, qualche tratto di imbranatezza è inevitabile ma lieve e perdonabile (come recarsi in un magazzino sotterraneo senza portarsi dietro neppure una torcia). Purtroppo non ci hanno esentato dall’immancabile presenza di una co-protagonista new age, quelle che percepiscono energie negative (tardivamente), per le quali pensare rimane un’attività opzionale (essendo pure una “tossica”), riuscendo soltanto ad arrecare danni e turbamento ai compagni di sventura, oltre ad indurre in tal caso situazioni, che se non fosse che le circostanze descritte rimangono pericolose e tragiche, sarebbero anche spassose. Credo questo aspetto appartenga ad un intrinseco humor britannico che si manifesta anche in questi autori, seppur la trama e gli eventi rappresentati siano piuttosto cruenti. Si percepisce infatti una sottile ironia di fondo, un ingrediente d’alleggerimento ben dosato con la tensione pulsante e sempre calzante alimentata sapientemente (si coglie in tanti micro-eventi, ma occorre prestare attenzione con mente sgombra, finché nel finale l’ironia ed il paradosso trionfa ed è recepito da tutti). In questo magazzino sotterraneo di grandi dimensioni che estende per quattro piani, con corridoi che lo rendono simile ad un labirinto, si forma pertanto un gruppo, che si aggrega man mano che gli occasionali frequentatori si incontrano ed interagiscono manifestando sospetti, proiezioni, conflitti ed aspettative reciproche. Frequentatori che diventano pertanto compagni di sventura, che sentendosi sempre più intrappolati e minacciati, lottano per la sopravvivenza, cercando di rompere l’isolamento ed il buio cui sembrerebbero condannati a causa della chiusura automatica delle porte che scatta a fine giornata, ma soprattutto cercano di evitare il rischio di venire uccisi dal misterioso e poco umano (almeno parrebbe inizialmente) “inquilino” che sembra provenire dal piano inferiore, il quarto, dove è situato il magazzino più remoto del complesso sotterraneo, apparentemente in disuso da parecchi anni, un ottimo rifugio dove poteva rimanere indisturbato, se non si fosse recata per compiere l’irreparabile gesto l’immancabile protagonista femminile, patologicamente curiosa e nevrotica (caratteristica che sarà anche la sua rovina) e distratta. Infatti tutto il complesso marchingegno narrativo nasce dall’errata lettura di una chiave elettronica e dal desiderio di controllare cosa celi il suo fidanzato e promesso sposo nel magazzino da lui affittato, curiosità che la porterà a destare la “creatura” dalla sua tana, che poi si scoprirà essere un piccolo “regno” di perversione e terrore, nel quale anche la “creatura” è solo un tassello, vittima e carnefice al tempo stesso. Un complesso marchingegno narrato, soprattutto nella fase finale, con leggerezza quasi soave dagli autori, per il tramite del protagonista maschile occulto e perverso di turno, reale gestore del piccolo regno sotterraneo.
Sorvolando su qualche lieve forzatura nella sceneggiatura, come il fatto che i protagonisti (potenziali vittime) siano tutti “ritardatari”, alcuni in maniera persino eccessiva e per futili motivi, attardandosi nel magazzino in prossimità della sua chiusura notturna, aggravata dal fatto non rimangano uniti come saggezza vorrebbe in tali circostanze (ma non sarebbe funzionale alla sceneggiatura che deve giustificare le vittime, tutte causate dal loro isolamento dal gruppo), e dal solito comportamento stereotipato in questo genere di film, che limita le potenziali vittime ad assestare un solo colpo al carnefice quando ne hanno l’occasione, senza mai infierire come vorrebbe l’istinto di sopravvivenza (congiuntamente ad un minimo di intelligenza pragmatica), per darsi a fughe precipitose quanto improbabili, per il resto il film risulta più che accettabile come verosimiglianza, inventiva e coerenza narrativa, per la ricchezza delle variabili, diversificazioni ed intersezioni della trama, che gioca molto sapientemente sulla psicologia dei personaggi, in particolare la principale protagonista femminile, tratteggiata molto bene nei suoi paradossi, fino alle estreme conseguenze finali. Non è certo un capolavoro, sono perlopiù ingredienti già utilizzati, ma in tal caso sono molto ben miscelati e proposti con garbo e dignità, compreso un finale intelligentemente non convenzionale.
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