Regia di Luchino Visconti vedi scheda film
La claustrofobia di una storia “impossibile” su un amore chissà fino a che punto facente parte dell’universo del reale: Luchino Visconti ha ben capito le istanze intrinseche della lettura dostoevskijana e, scrupoloso com’era, non poteva schivare questa importante caratteristica della narrazione. Ovviamente non va dimenticato che, essendo Visconti regista anche (e soprattutto?) teatrale, una dimensione più intima ed interna gli era di certo congeniale (Le notti bianche è un film essenzialmente impostato come un’opera teatrale, secca ed affascinante). Al contempo, l’impianto scenografico di Mario Garbuglia e Mario Chiari ha una doppia valenza: la creazione di un altrove (riferibile a Livorno, ma pressoché inventato) in cui governare come meglio si crede il trasmigrare dei corpi (ci sono anche due fantasmi tra realtà e finzione scenica: Jean Marais e Clara Calamai) e il tepore claustrofobico dei rapporti sentimentali.
Avvolto nella nebbia di un inverno freddo e vissuto da personaggi appartenenti quasi ad un universo metafisico, potrebbe essere il sogno di una notte irrequieta e minata dai malanni di stagione, ma inevitabilmente ci rassegniamo alla circostanza della verità. Non è una notte bianca (attraversata dall’immateriale), ma una serie di notte bianche sull’imprevedibilità dei sentimenti. La sfuggente alchimia delle anime di Marcello Mastroianni e Maria Shell è l’essenza necessaria della drammaticità melodrammatica dell’eterea sostanza filmica: Visconti la mette in scena con la raffinatezza di un romanziere d’appendice, creando la giusta atmosfera in direzione ricercata ed elegante nell’evocazione (ma anche nella concretizzazione) di un’espressione filmica. Nino Rota ci mette il suo, così la fotografia di Giuseppe Rotunno: ma è soprattutto Visconti ad avere il merito della buona riuscita. In fondo è solo un altro capitolo (uno dei primi) sulla decadenza di un mondo. Qui c’è la sfera sentimentale, quasi spirituale.
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