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Frank Costello faccia d'angelo

Regia di Jean-Pierre Melville vedi scheda film

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La recensione su Frank Costello faccia d'angelo

di alan smithee
9 stelle

J.P. MELVILLE

Frank (o Jef nell’originale) Costello (un raggelato ed efficace Alain Delon) fa il killer su commissione. Taciturno, inflessibile, preciso, affidabile, esegue il suo sporco incarico di volta in volta senza destare clamori, servendosi unicamente di Citroen DS (lo squalo), di cui possiede una generosa combinazione di chiavi. Ma quando nella sua ultima missione di morte, viene scorto dalla bella pianista del locale (Cathy Rosier, una pantera dallo spirito di osservazione più affilato ed implacabile delle sue unghie feline) in cui egli ha appena assassinato il proprietario, Frank è costretto a ricorrere all’aiuto di una ex fiamma (Natalie Delon, bella come poche), tutt’ora innamorata di lui, per precostituirsi un falso alibi che lo scagioni.

Circostanza che verrà creduta molto poco dalla polizia, a tal punto che il killer verrà scagionato solo grazie alla complicità della testimone oculare, che, in sede ufficiale, nega tassativamente il coinvolgimento dell’uomo nel fatto di sangue.

Scagionato, l’uomo, nuovamente a piede libero, diverrà dapprima vittima dei suoi stessi mandanti, desiderosi di eliminare il problema alla radice, poi pedinato ossessivamente da un zelante e scaltro ispettore di polizia (l’ottimo Francois Périer), che perquisirà e metterà sotto osservazione la sua spoglia stanza d’abitazione, in mezzo alla quale troneggia una gabbia con un piccolo volatile canterino, impegnato nel suo stridulo e ripetitivo verso malinconico.

Sarà proprio osservando il piccolo animale, tutto arruffato come in preda all’agitazione, che il nostro uomo comprenderà di avere la casa sotto stretta osservazione. Nel contempo i mandanti-aguzzini che volevano eliminarlo, si decidono ad affidargli una nuova missione, che si rivela per l’uomo, psicologicamente dirompente per il subbuglio emozionale a cui l’incarico lo pone a confronto. In tal modo, il killer dovrà decidere non tanto se eseguire o meno l’incarico, ma piuttosto se restare in vita o sacrificarsi.

Polar serrato, freddo solo in apparenza, dalla magnifica fotografia e scenografia glaciali, condotto con gran sapienza dal maestro del genere J.P. Melville lungo i binari coinvolgenti e controllati nei minimi dettagli di questo genere a metà strada tra il poliziesco ed il noir, dando vita ad uno dei migliori prodotti di genere in assoluto, Le Samourai (titolo originale che riflette la risoluta e meditata solitudine del killer protagonista, animato da sentimenti che non può permettersi di gestire come vorrebbe, quasi imprigionato in un ruolo che, suo malgrado, lo condurrà all’inferno) fin dal suo incipit - in cui troneggia la scritta “Non esiste solitudine più profonda del samurai, se non quella della tigre nella giungla”  - denuncia la sua intenzione di estendere la propria osservazione al di là dei cliché perfettamente catturati e ricalcati del genere, ovvero un thriller contaminato magnificamente da dettagli e tecniche di esecuzione marziale di ispirazione marcatamente orientale, soffermandosi su tematiche intime che subentrano prepotentemente a conferire alla svolta freddamente noir, una nobiltà introspettiva mirabile, superba, in grado di suggellare figure protagoniste che possono di diritto rimanere nella storia del cinema come personaggi indimenticabili, unici, definitivi.  

 

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