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Frank Costello faccia d'angelo

Regia di Jean-Pierre Melville vedi scheda film

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Auguste

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Frank Costello faccia d'angelo

di Auguste
10 stelle

"Il n'y a pas de plus profonde solitude que celle de samouraï si ce n'est celle d'un tigre dans la jungle... peut-être..."(Le Bushido? No: Jean-Pierre Melville)

Con questa citazione apparentemente tratta dal Bushido e non presente nell'ignominiosa versione italiana si apre il capolavoro di Melville.
Se è vero che i primi dieci minuti di un film ci introducono alle scelte stilistiche e tematiche adoperate da un regista, come sosterrebbe anche il signor Tarantino, allora è essenziale prestare la massima attenzione alla breve ma pregnante sequenza d'apertura.

Una stanza immersa nella penombra, due sole finestre emanano una luce tenua, glaciale, quasi, come lo sguardo del protagonista, disteso su un letto, i pensieri lontani.
C'è del fumo. Il canarino chiuso in una gabbia con il suo cinguettio rompe il silenzio. Parte la musica. Il protagonista si alza ed afferra delle banconote spezzate a metà. Il resto a fine lavoro.
Un curioso gioco con il canarino, una rapida ma accurata risistematina allo specchio, poi su il cappello e via.

La solitudine dell'eroe, la ritualità ed il silenzio.

Un alone di mistero pervade l'intero film ed è a partire dalla caratterizzazione della stanza che è possibile evincere qualcosa della personalità enigmatica del protagonista, che scopriremo chiamarsi Jeff Costello(il nome sarebbe un omaggio al Jeff di "Out of past" di Tourner) ed essere un killer di professione assoldato dalla mafia per uccidere il proprietario di un night club.
Una stanza ascetica, priva di ogni decorazione, essenziale, minimalista, soggiacente alla logica minimalista di Jeff e, per esteso, del cineasta Melville.
Il cinguettio del canarino, con-sorte di Jeff nell’accezione più pura del termine, spezzando il silenzio sancisce ed anticipa due dei momenti più importanti del film: sarà infatti proprio il cinguettio del canarino a dare l’allarme a Jeff(quando la polizia installerà delle microspie nel suo appartamento).
E’ allora nei primi quattro minuti che Melville ci prepara alla fruizione di un’opera minimalista, rigorosa e contengono forse il senso ultimo del film, quello della rappresentazione "asettica", a-morale(cioè priva di morale, intesa come giudizio dell'azione da parte del regista o dei personaggi che ne incarnano dialetticamente le rispettive parti)della storia e che ci guidano verso la comprensione del personaggio.
Comprensione che può avvenire soltanto tramite la gestualità. Melville, le cui idee erano probabilmente accostabili all’esistenzialismo di tipo camusiano, non ci dà una descrizione del soggetto in quanto entità prestabilità e preesistente alle proprie azioni, ma sono proprio le azioni a rendere vivo, pur nella loro meccanicità, il protagonista di una storia che tutto sommato è stata pre-determinata dal Fato(ma il finale lo analizzerò dettagliatamente in seguito).

Citizen Costello

Jean-Pierre Melville dal primo all’ultimo minuto si preoccupa della decostruzione psicologica del personaggio pur svelandola, paradossalmente, attraverso le azioni ch’egli compie silenziosamente, come un condannato a morte consapevole della necessità del martirio per svincolarsi dal legame inautentico all’esistenza.
Quando parlo di “decostruzione psicologica” mi riferisco allora alla necessità di un racconto distaccato, anche freddo, dell’indeterminatezza come mezzo rappresentativo dell’inconoscibilità del soggetto.
La lezione di Welles e del suo Cittadino Kane con la sua “Rosebud”, seppur con evidenti differenze, ha in effetti posto le basi per una progettualità descrittiva dell’individuo destinata inevitabilmente allo scacco.
Ed è proprio la parola “scacco” che ci viene in mente parlando di un film esistenzialista come “Le Samouraï” per quanto, come ho già anticipato, parlare di nichilismo assoluto in un film del genere sarebbe in un certo senso riduttivo.  
Quali siano le motivazioni che spingano Jeff ad effettuare le proprie scelte di vita, che relazione lo leghi alla giovane donna che premurosamente gli offre un (falso) alibi, quale sia il suo passato… tutto questo è lasciato nel dubbio.
Il vero enigma del personaggio risiede nei gesti che sembra ripetere ossessivamente, quasi come dei tic, quasi a smascherare qualcosa di rimosso che puntualmente sembra riemergere dai comportamenti tendenti ad un maniacale perfezionismo.
In questo senso un indizio ce lo dà lo stesso Melville che in un’intervista ha esplicitamente dichiarato che il film è “uno studio su una personalità affetta da schizofrenia”.
Per quanto in molti si siano pronunciati contrari a questa riduzione(alcuni hanno addirittura parlato di inesattezza: il protagonista NON sarebbe schizofrenico), il fatto è che una descrizione del genere, per quanto semplicistica, rappresenta un buon punto di partenza per comprendere in parte ciò che anima Costello. Un professionista fin troppo attento nel pianificare i propri spostamenti o uno schizofrenico?
Il punto è che non conta affatto. E’ quel che si vuole far trasparire dal film a rendere il senso, a ricomporre l’identità di un soggetto frantumato, alienato, che ci sembra quasi scisso da ogni nostra logica, perché astratto ed inseparabile – come ho già fin troppe volte messo in evidenza – dal proprio operato.
Il samurai braccato dal Destino e dai suoi nemici (la situazione lo porterà ad avere alle calcagna tanto la polizia quanto la mafia, decisa a toglierlo di mezzo a causa del suo errore: quello di aver lasciato una testimone dell’assassinio che gli avevano commissionato) si trova ad essere l’unico personaggio “onesto” del film(insieme a quelli femminili, come anche in altri film di Melville).
Il paragone tra l’etica di Jeff e quella del Samurai è suggerita, oltre che dal titolo del film stesso, anche dalla citazione sopra riportata, quella che Melville voleva far credere aver tratto dal Bushido(il libro dei Samurai).
La via del samurai e quella di Jeff è la stessa e conduce alla Morte.
Sarebbe però fin troppo semplice ridimensionare l’ambiguità di fondo del film facendo ricorso al rigido paragone con l’etica del “samurai”, per quanto l’esattezza di questa tesi sia comunque parzialmente verificabile.

Il suicidio del samurai

Il bellissimo finale non aiuta certo a sciogliere l’enigmaticità del personaggio, per quanto tutto sembrerebbe puntare verso la spiegazione dell’etica samurai, cui pure Melville aveva voluto designare.
Jeff ritorna nel locale dove l’orchestra sta suonando. E’ immobile. La pianista di colore – la testimone che aveva assistito al primo omicidio e di cui Jeff sembra essersi innamorato e che potrebbe simbolicamente rappresentare la Morte – entra in scena tra i parchi applausi del pubblico. Quasi senza scomporsi Jeff estrae dalle tasche dei guanti bianchi che frettolosamente mette mentre osserva la sorridente pianista.
Le si avvicina, poggia una mano sul piano, e la fissa con uno sguardo che sembra celare un’inconfessata sofferenza. La pianista gli parla, lui sembra di marmo, i soli occhi tradiscono una traccia di umanità mentre estrae la pistola dalla tasca.
“Perché?” gli chiede la pianista. “Mi hanno pagato per farlo”.
Si sentono degli spari. Ma a cadere non è Valery, la giovane pianista, ma Jeff, che morendo si porta le mani al petto.
Sono stati degli agenti a spararlo, tra cui lo stesso ispettore che mai aveva creduto nella sua innocenza, nonostante gli alibi che la donna di Jeff si era preoccupata di fornirgli.
Uno degli agenti si avvicina all’esterrefatta Valery: “L’ha scampata bella, senza noi sarebbe morta”.
L’ispettore pronuncia allora la battuta conclusiva del film. “No”, e nel dirla mostra la pistola del killer: era scarica.
Comprendiamo allora che il terzo omicidio che Jeff aveva con tanta cura preparato “tornando per la seconda volta sul luogo del(primo)crimine” non era altro che il suo.

Jeff Costello: enigma irrisolto

Quanto detto finora ci ha portato alla concezione dell’harakiri, del seppuku, come unia via di “autenticità”: l’Uomo(Jeff)braccato dal Destino non può che consegnarsi di sua spontanea volontà alla Morte.
E’ allora con quell’ultimo gesto premeditato, quello di indossare dei guanti bianchi, che Jeff incarna la purezza della sua decisione, della sua risolutezza. E’ un assassino, ma è l’unico a rispettare le regole, che non sono naturalmente quelle dell’etica, ma quelle di una morale individuale, il codice di un samurai, per l’appunto. I gesti in questo senso divengono allora assoggettabili ad un disegno superiore, come lo è l’omicidio iniziale, o il suicidio finale del protagonista, che non si sporcherà le mani.
Ma in realtà, come dicevo qualche rigo sopra, è riduttiva come spiegazione, proprio per la sua pretesa disambiguante.
La dichiarazione di Melville circa la schizofrenia del protagonista sembrerebbe gettare l’ombra del dubbio sulle nostre certezze.
Jeff agisce secondo un preciso codice morale o le sue sono azioni ripetute ossessivamente senza una vera ragione? E in secondo luogo… perché uccide?
Quel gioco che fa con le banconote sulla gabbia del canarino; quando si specchia e si aggiusta il cappello; quando silenziosamente medica le sue ferite(scena copiata dal bellissimo “The Killer”) – scena che rafforza il senso di solitudine del protagonista e centra pienamente la metafora inizialmente proposta della tigre(la frase non-tratta dal Bushido paragona la solitudine del samurai a quella della tigre nella giungla… e in effetti la tigre è tra i felini quello sicuramente più individualista, perché non contemplante l’idea di branco) -; quando si prepara per  l’esecuzione finale… TUTTO CORRISPONDE ad una sorta di rituale svolto silenziosamente, con un'aura di estrema sacralità. Che sia il modus agendi di uno schizofrenico - come ha acutamente osservato Melville - o di un samurai che prende molto seriamente il suo codice d'onore, poco importa, in fondo.
C’è tuttavia una scena che potrebbe forse costituire un modo possibile di interpretare ciò che non può essere univocamente compreso. E’ a mio avviso, insieme al prologo e all’epilogo la scena madre del film.
Quando, dopo essere stato dalla pianista di cui si è invaghito, Jeff rientra nel suo appartamento, trova ad attenderlo uno dei sicari mandati per liquidarlo che gli punta una pistola contro.
La scena è particolarmente significativa sin dall’ingresso di Jeff nell’appartamento.
Egli si accorge che qualcosa sta andando storto proprio a causa della rottura della routine rappresentata dall’assenza dello specchio(nel quale era solito specchiarsi per poi aggiustarsi il cappello)in primo luogo e poi vede che uno dei due canarini che erano nella sua gabbia sono stati uccisi. Sta cercando un’arma quando il tizio, rompendo il vetro di una finestra appare minacciandolo con una pistola e lo fa sedere.
Il dialogo tra i due è allora particolarmente significativo, per quanto breve e conciso(è un film bressoniano che si sofferma poco sui dialoghi, scarno, rigoroso, con una grande cura per i dettagli, le parti del corpo che compiono un’azione e che presta molta attenzione agli sguardi).
Il sicario che poco prima lo aveva ferito tentando di ucciderlo, stavolta gli fa una proposta di lavoro, una seconda chance, ma Jeff è imperturbabile, quasi stoico nella sua inespressività e non sembra manifestare alcuna emozione(l’unico momento in cui sembra turbato è il finale, quando si consegna alla Morte inscenando l’omicidio della pianista).
Jeff è silenzioso. Il tizio lo interroga:
“Non rispondi niente?”
“Non parlo mai con chi ha una pistola in mano”
“E’ una regola?”
“Un’abitudine”.

Jeff approfitta di un momento in cui il tipo abbassa la guardia per aggredirlo e disarmarlo.
Perché abbia riportato questo breve dialogo credo sia lampante per constatare la complessità del personaggio, che non può allora essere ridotto neanche ad un samurai che agisce esclusivamente in base alle proprie regole. L’abitudine cui fa riferimento è solo una delle tante che regolano la propria vita e che traspaiono, come dicevo all’inizio, a partire dall’arredamento povero e scarno del suo piccolo appartamento. Quasi come se fosse metafora del film stesso, il suo appartamento è allora l’ambiente/il rifugio/il SET entro cui il protagonista/tigre/regista si trova ad agire, saldo nei propri meccanismi di rappresentazione.
Come l’appartamento sembra avere solo l’essenziale alle funzioni del protagonista(mangiare, riposare, medicarsi...), così il film non ha la minima sbavatura e non ha nulla fuori posto.
Dunque poco importa se agisce in base ad un codice morale o se è solo tramite le proprie ossessioni di controllo, che si manifestano nella ripetizione costante dei medesimi – spesso impercettibili – gesti.
E non ci è neanche possibile stabilire se quella sua estrema cura per i dettagli corrisponda ad una patologia o ad un eccesso di perfezionismo… nell’uno o nell’altro caso vi è pur sempre una crisi interiore alla base.

Jeff Costello è in gabbia!

Il dramma interiore del “samurai” è l’impossibilità di fuggire dalla rappresentazione del sé, forzato com’è a vedere la propria immagine riflessa in continuazione. Potrebbe specularmente alludere anche alla sua mania di controllo(che è per esteso, volendo riprendere l’improbabile paragone metacinematografico già iniziato, la mania di controllo del regista stesso… ma Melville non è Kubrick!).
Come il paragone con la tigre è stato esaltato sin dalla citazione iniziale, così è lampante quello successivo con gli uccelli di cui si prende cura.
Gli uccelli, come Jeff, vivono perennemente rinchiusi tra le sbarre della propria gabbietta.
Il loro piccolo mondo ha tutto quel che serve loro per il sostentamento, ma non sembrano avere vie di fuga, se non con la morte. La morte, tanto per Jeff quanto per i suoi volatili, diviene l’unica via di fuga dall’esistenza. Ed è per questo che Jeff progetta la propria morte. Mi ricorda una commedia di Eduardo De Filippo, “Le Voci di Dentro”(la versione che ho visto era proprio del ’67 se non erro, coeva del film di Melville, anche se ogni somiglianza è chiaramente casuale)in cui vi era un personaggio che, constatata l’inutilità delle parole, decise di non parlare più(comunicando a suon di fuochi artificiali con il nipote)il quale ebbe a dire “che l’uomo è libero soltanto di morire”. Il riferimento è puramente fantasioso(se ne potrebbero citare migliaia, soprattutto addentrandosi nell’ambito dell’esistenzialismo francese), ma rende bene l’idea.  
I volatili saranno gli unici compagni fedeli di Jeff, quelli che lo aiuteranno a comprendere in ben due occasioni che qualcuno è penetrato nell’appartamento(quando la polizia ha piazzato le spie e quando il sicario della mafia ha ucciso uno dei due cercando di sorprendere Jeff)… ed ho il sospetto che anche quando cantano all’inizio abbiano segnalato al protagonista il passaggio di qualcuno(magari quelli che gli hanno consegnato le banconote “tagliate”).
Per Jeff non sappiamo se all’infuori del legame che instaura con la pianista(è emblematica la sua scelta di morire in quel modo)ne abbia altri autentici. E’ molto probabile che l’altro legame autentico è quello che lo lega alla bionda compagna(una prostituta che lo aiuterà fornendogli un falso alibi… Nathalie Delon, all’epoca moglie dello stesso Alain Delon), che molto probabilmente conosce bene Jeff… o forse è anche per lei un enigma. Le donne sono gli unici personaggi “umani” in questo film, gli unici a comprendere il protagonista e a comprendere l’imminente tragedia(Valery capisce tutto sin da quando Jeff le si avvicina nel finale).
D’altra parte il mistero del personaggio di Jeff ci rende impossibile stabilire anche se egli sia in grado di amare oppure no, proprio perché Melville non è interessato a costruire un profilo psicologico dei suoi personaggi, non macchiette, ma esseri umani, veri, ma al tempo stesso quasi ascetici, che hanno qualcosa di sacro, al di là del bene e del male, del rito e dell’onore. Hanno qualcosa di ineffabile e che sfugge ad ogni figurazione.
Anche il suo prendersi cura dei volatili potrebbe essere dettato da una semplice abitudine o da una necessità, d’altra parte. Quel che ritengo invece fuori discussione è il particolare rapporto che lo unisce alla pianista, per il quale sembra provare un sentimento molto particolare, che neanche può essere definito semplicemente “amore”, perché è come se deponesse nelle proprie mani la sua vita, è come se si consegnasse alla Morte.
Forse Jeff vuole soltanto vivere tranquillo, da solo con i suoi pensieri. Chissà…

L’eredità del samurai

Concludo l’estenuante recensione(sperando di non trovare in futuro troppi film del genere, anche se è ovviamente difficilissimo visto che si tratta di una rarità assoluta nel genere polar)ricordando quanto questo film abbia influito su altre pellicole.
Potrei parlare di “The Killer”, il film che più spiccatamente si rifà al capolavoro di Melville. Lo stesso John Woo ha ammesso di essersi ispirato a questo che considera il “film perfetto”.
Potrei parlare di registi diversi tra loro come Jim Jarmusch o Luc Bésson(Léon, anyone? La piantina di Léon/Il canarino di Jeff?).
Oppure potrei limitarmi a dire che questo film è un capolavoro inimitabile, una vera e propria goduria per chi riesce ad entrare in sintonia con l’atmosfera e con il tono di questo gioiellino.
Dopo averlo visto la concezione che si ha del cinema è destinata probabilmente a cambiare radicalmente, a favore di un’estetica più asciutta, cruda e minimalista.
Spengo il dvd, mi rilasso, ancora attonito fumo una sigaretta, controllo l’ora. Ho ancora abbastanza tempo per poterlo rivedere!

Sulla trama

La trama, i personggi, le tematiche... sono un tutt'uno... il film è l'attuarsi di quella didascalia - bellissima, sempre di Melville - che introduceva il precedente "Le deuxième souffle":
"All'atto della nascita, all'uomo è concesso un solo diritto: la scelta di come morire. Ma se questa scelta è oppressa dal disgusto di come si è vissuto, allora la sua esistenza non sarà stata che un'atroce burla"
Questa dichiarazione rappresenta alla perfezione l'intero cinema di Melville.

Sulla colonna sonora

La colonna sonora originale del film - e non quella che è stata ignobilmente scelta per la versione italiana! - è il miglior commento musicale che avrebbero potuto fare ad un film del genere. I lunghi momenti di silenzio sono alle volte intervallati dalla splendida colonna sonora che rende alla perfezione l'impossibilità di fuga(se non nella morte)del protagonista.
Francois De Roubaix è capace di questo ed altro!

Cosa cambierei

L'edizione italiana: titolo, colonna sonora e nomi dei personaggi alterati in maniera ridicola(ma fantasiosa come al solito!), anche se rispetto ad altri di Melville i tagli e le modifiche sono stati minimi!

Su Jean-Pierre Melville

Un Bresson Nichilista.
E' riuscito a creare quello che a tutt'oggi reputo l'unico film realmente perfetto dal punto di vista stilistico-formale, ultimando il percorso che aveva compiuto in "Le Deuxième Souffle"(con un EPICO Lino Ventura), approfondendo maggiormente i personaggi(non da un punto di vista meramente psicologico: il che sarebbe addirittura dannoso ai fini del film). Vedrò "Le Cercle Rouge" a questo punto!
Un film determinista e fatalista che fa dei silenzi e dell'essenzialità delle azioni e dei movimenti il suo punto di forza, reggendosi anche sulla splendida colonna sonora di De Roubaix e sulla bellezza della fotografia, per la quale sono stati adoperati volutamente colori scarni, tendenti al grigio, perfetti per raffigurare la piattezza delle situazioni, il vuoto interiore che sembra animare la maggior parte dei personaggi e, in ultimo, l'assenza di un significato per l'esistenza(che come ho già detto Jeff potrebbe trovare nel suo codice di vita o nelle sue singole azioni).
Sarebbe inutile soffermarsi ulteriormente sul minimalismo del film. Quel che conta sottolineare è come il regista sia riuscito a conciliare una messa in scena realistica(proprio perché asettica, fredda e distaccata)con un'astrazione che dà al film un tono quasi metafisico.
Questo grazie all'indeterminatezza costruita attorno al film, all'assenza di contestualizzazione(anche gli abiti dei personaggi in questo senso sono emblematici)che rende il film un'opera quasi svincolata dal tempo: le azioni di Jeff metaforicamente potrebbero avvenire nel corso del tempo, molto più lentamente di quanto ci sembri.
In questo senso mi ha ricordato molto "Querelle" di Fassbinder, proprio nella costruzione di una dimensione metafisica atemporale.

Su Alain Delon

Grandioso e basta. Basterebbe vedere anche un paio di singoli fotogrammi per rendersi conto di quanto Delon sia l'attore perfetto per questo ruolo. Solitario, enigmatico, tragico e leale.

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