Regia di Alessandro Aronadio vedi scheda film
ORECCHIE
È possibile andare a scomodare il teatro dell’assurdo e quindi Harold Pinter, Eugene Jonesco o Samuel Beckett per questo film di Alessandro Aronadio? Sì, secondo chi redige queste note. La provenienza teatrale del protagonista Daniele Parisi, qui al suo debutto nel cinema, incoraggia, se ce ne fosse bisogno, tale incursione. Con quella faccia un po’ da Buster Keaton, l’attore di “Orecchie” ci ha rimandato a lontanissime reminiscenze di un cortometraggio – Film, diretto nel 1964 da Alan Schneider e sceneggiato da Beckett – forse intravisto all’interno di qualche rassegna cinematografica durante gli anni 70.
Se, però, il teatro dell’assurdo sembra privilegiare aspetti tesi ad una ricerca formale che porti alla luce la vanità dell’esistenza umana, con questo film, che possiamo azzardare a definire grottesco, surreale e “assurdo” fin che si vuole, corriamo il rischio di arrivare alla conclusione che la suddetta ricerca sia arrivata al capolinea e anche di doverci servire di aggettivi esattamente opposti a quelli appena adoperati, introducendo semplici concetti quali specchio della realtà sociale e coerenza narrativa.
Il film si svolge interamente nell’arco di una giornata e la vicenda del malcapitato eroe può comportare, per questo, ulteriori nobili accostamenti letterari e pensiamo a James Joyce.
Il protagonista è un uomo, insegnante supplente e, se non prendiamo un abbaglio, privato di nome dallo sceneggiatore. Un semplice simbolo, quasi una non esistenza che, come tale, non può essere presa in considerazione. Una pura entità, scomoda e quasi invisibile. Si sveglia nell’appartamento di Alice che gli ha lasciato un biglietto in cui comunica la morte di Luigi, il suo migliore amico, e l’orario del funerale. È disturbato da un fastidioso fischio all’orecchio che l’accompagnerà per tutta la durata del film. Si coglie ben presto che si tratta del rumore di fondo assurdo, del chiacchiericcio messo in circolo, del ronzio petulante somma di tanti vuoti sproloqui che tentano di mascherare il nulla interiore. Ma potrebbe pure essere un disturbo fisiologico concreto: qualcuno se ne prenderebbe cura?
La giornata prende corpo. In realtà è un accumularsi inutile di ore che si avanzano, parrebbe, solo per giustificare accadimenti insensati. A partire da una lunga Odissea ospedaliera, in cui, più che a episodi di mala sanità, assistiamo ad una macabra farsa figlia del cinico divertimentificio contemporaneo. Gli autori del film hanno stabilito che niente e nessuno si debba salvare nella storia, ma la loro abilità sta nel far credere che non si tratti di una scelta narrativa, bensì di uno specchio in cui ci si possa più o meno tutti riflettere con consapevolezza.
Il film è classificato come “commedia”. Così, d’altronde, sono definite le pièces teatrali degli autori del “teatro dell’assurdo” e così si è espresso pure l’attore protagonista. Plausibile? Può rassicurare e rasserenare l’estraneità di questo mister X che, alla fine della vicenda, si piega alla visione generale?Si può definire un “lieto fine” o, invece, non si tratta che della rassegnazione all’insensatezza? Nei momenti finali del film, il ronzio del protagonista prende piede nella colonna sonora e cresce fastidiosamente fino a cessare di colpo con la proposizione dei titoli di coda. Che cos’è successo? Lo avvertiamo tutti ma poi ci assuefacciamo? Oppure siamo tutti vittime di un’illusione?
Si scoprirà anche che l’unico punto di contatto e di affratellamento nasce da un fraintendimento, da una sbavatura su di un foglio con conseguente errata lettura di un numero telefonico… l’unica speranza esce da un’estraneità che si confida non essere tale. Il protagonista si colpevolizza, finisce col dover accettare di credere di essere lui ad essere sbagliato, e non per questo mondo, ma in assoluto. Gli altri si sono già piegati e non possono capirlo, nessuno può cogliere la sua estraneità.
“Una persona difficile” – così lo sente la compagna (fidanzata? Futura moglie? Madre di un figlio/speranza a cui non è chiaro come quest’uomo invisibile giunga ad attaccarsi?)
Oppure uno di quelli “fuori del mondo” – così la direttrice del giornale che si guarderà bene dall’assumerlo. O anche un evidente errore di valutazione fatta dal suo insegnante (ora devoto alle play station) e dalla moglie che lo avevano ritenuto un genio. La storia, poi, denuncia e ridicolizza il mondo radical chic rappresentato dal pubblico plaudente alla performance del “creativo”, compagno della ringalluzzita e svagata madre.
Alcune “libertà” linguistiche messe in bocca al prete up to date, scettico se non proprio agnostico o alla moglie dell’insegnante (cazzo, cazzate), sono più sintomo di un adeguamento ideologico allo spirito del tempo che non simbolo di una liberazione dalla rigidità dei ruoli.
Sembra a chi scrive che “Orecchie” trasudi uno spaesamento e un pessimismo tali che non è possibile mascherare con rari momenti che strappano un poco convinto sorriso. Magari qualcuno può pure tentare di ridere… ma, come si fa?
Insomma, chi ha “orecchie” per intendere, intenda.
Enzo Vignoli
8 luglio 2017
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