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Kékszakállú

Regia di Gaston Solnicki vedi scheda film

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La recensione su Kékszakállú

di OGM
4 stelle

Ermetica rielaborazione cinematografica di un'opera lirica di Bela Bartok.

Dire. Occorre saper dire. L’espressione può anche rimane imperfetta e incompiuta, ma non deve mai deliberatamente  ritrarsi nella sfera esclusiva del pensiero personale. Se l’ispirazione è incontrollabile, lo stesso non vale per la sua esternazione. Comunicare è un concreto impegno assunto verso il mondo. Ma Gaston Solnicki preferisce fermarsi all’emissione di singole parole. Afferra al volo le suggestioni di un’opera lirica, tratta da una favola per bambini, e cerca di tradurle in istantanee tratte dalla vita di oggi, scattate con un atteggiamento indeciso tra la tentazione estetizzante e un’approssimazione che vorrebbe denotare spontaneità.  Occorre stare molto attenti per non perdere il filo. Il film va rivisto più di una volta per poterne riconoscere i motivi conduttori, e cominciare ad azzardare ipotesi sul suo contenuto. Il riferimento al Castello di Barbablù è un debole indizio. Aiuta a capire il tema di riferimento: situazioni apparentemente futili ed ordinarie, in cui bambine, ragazze o donne si sentono inferiori, inadeguate, incomprese, escluse. Per non riuscire a tuffarsi dal trampolino. Per aver sbattuto contro un’auto in fase di parcheggio. Per i motivi  più disparati, alcuni non del tutto chiari. L’intenzione è forse quella di ritrarre un’emarginazione che si manifesta in sordina, restando confinata negli angoli delle architetture imponenti che invadono il campo visivo, e che sono soprattutto prigioni. Ma l’idea viene fuori a fatica. Il messaggio si disperde nell’incapacità di porre gli accenti al posto giusto, in un racconto che, a dispetto della sua genesi musicale, appare completamente privo di intonazione. Dalla sua uniformità non è nemmeno possibile lasciarsi trascinare: troppo debole e irregolare è la corrente di questo fiume di immagini che si inseguono senza trovarsi. Per orientarle basterebbe anche solo un’eco, in sottofondo, che fornisse l’accordo fondamentale, modulando il registro emotivo, dotando le situazioni dell’ombreggiatura necessaria a renderle intelligibili. Invece il supporto resta muto, a guardare le cose che accadono, senza distinguere le inezie dai fatti davvero importanti, senza colorare le allusioni, né tratteggiare i contorni dei concetti invocati. Sarebbe bello se questo film riuscisse a parlarci per bene dei valori che pare gli stiano tanto a cuore: la libertà, la sincerità, il tormento e la gioia che procurano, ad ognuno di noi, i desideri più intimi.  È un peccato poterli solo intuire. Non dovrebbero restare nascosti. Farli vivere si può. Con o senza inventiva. È solo una questione di buona volontà.    

 

scena

Kékszakállú (2016): scena

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