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Big Big World

Regia di Reha Erdem vedi scheda film

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La recensione su Big Big World

di yume
8 stelle

C’è, nel cinema di Erdem, una pacata tristezza connaturata al ritmo stesso della vita, la disarmata giovinezza dei suoi piccoli eroi parla dello smarrimento di un’umanità a cui si raccontano solo menzogne, come quella dell’infanzia felice.

 

locandina

Big Big World (2016): locandina

 

Premio Speciale della Giuria Orizzonti a Venezia73, Koca Dünya (Big Big World) di Reha Erdem è un felice incontro con il cinema turco contemporaneo e con uno dei suoi esponenti di maggior talento.

 

Classe 1961, una importante retrospettiva al 47° festival di Karlovy Vary nel 2012 a partire dal suo capolavoro, Kosmos (film del mese per il prestigioso magazine del BFI Sight and Sound ) Erdem firma con Koca Dünyail suo nono lungometraggio.

Kaç para kaç (1999) Bes vakit (2006) e Hayat var (2008), dopo il film di esordio A Ay (nel 1989 premiato dall’Associazione degli Scrittori turchi come miglior film dell’anno), sono i titoli migliori di una filmografia che arriva senza soluzione di continuità a Koca Dünya e racconta storie di grande coerenza tematica e indubbia padronanza di mezzi espressivi. 

Dialogo sempre scarno, la vita scorre in periferie di città anonime o in villaggi da dove la metropoli, Istanbul, non è che un punto lontano, non identificato, dell’orizzonte.

Il tema politico traspare nella filigrana tessuta da immagini in cui si condensano trame di vita marginale, in discussione ci sono tutti i valori di un ordine sociale che risulta totalmente sovvertito.

Legami parentali, processi formativi, strutture educative, giustizia e diritti, sviluppo della sessualità nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, abuso e violenza sulle donne.

Tutto si riassume nei brevi tocchi di una partitura di poche note, i giovanissimi protagonisti del cinema di Erdem sono ragazzi soli, che ci sia o meno una famiglia alle loro spalle la condizione di orphanage è totale, connaturata alla loro esistenza.

 

scena

Big Big World (2016): scena

 

Alì (Ecem Uzun) è un ragazzo di età indefinibile, i curiosi baffetti contrastano vistosamente con il suo viso di bambino cresciuto in fretta. Evidentemente orfano, lavora riparando moto in una sgangherata officina della periferia sporca della città dove, di tanto in tanto, passa un Luna Park e una giovane baldracca della troupe sa come raggirarlo.

Alì ha una sorella più piccola, poco più che una bambina, Zuhal (Berke Karaer), che lui vuole a tutti i costi riprendersi dalla famiglia che l’ha avuta in affido dopo l’orfanotrofio. Per ottenere lo scopo, poiché le resistenze sono molte e dettate da motivi ignobili che ben presto saranno chiari, Alì non esiterà ad uccidere e, caricata la ragazzina sulla moto, a fuggire nel bosco dove il "grande grande mondo" li dimenticherà, così almeno spera.

Alle spalle dei due ragazzi c’è una realtà di miseria e violenza, un padre adottivo che sta per fare di Zuhal la sua seconda moglie e l’indifferenza di un consorzio umano in cui l’esclusione è condizione primaria.

Nel bosco la natura li circonderà di presenze simboliche che altro non sono che proiezioni delle loro drammatiche carenze. E allora Zuhal griderà “papà ” alla capretta bianca  che spunta tra i cespugli, terrà stretta a lungo come fosse della madre la mano rugosa della vecchia demente, morta dopo aver vagato inebetita nel bosco.

La terra, per lei e il fratello, è pace e rifugio, nulla che venga da questo mondo sconosciuto sembra spaventarli.

Ripartire da zero  e reagire all’esclusione del mondo che li ha calpestati sembra essere la loro utopia, Erdem costruisce un habitat fiabesco, una foresta incantata in cui rinascere e così Ali diventa Kum-Kum e Zuhal Mi-Mi, nomi nuovi inventati dalla piccola per una nuova vita.

Ma quello che Erdem mette in scena non è un mito di ritorno del “buon selvaggio”.

Ali e Zuhal vivono questo breve segmento della loro vita in una condizione di innocente incoscienza, il bosco non li respinge ma non è la Gran Madre che accoglie benigna i suoi figli nel suo grande seno.

Fuori dal tempo della civiltà l’uomo non trae alimento che basti dai ritmi di una natura indifferente, la sua fuga è verso una libertà molto povera che ben presto rivelerà la sua inconsistenza, bastano poche bacche velenose ingoiate quando la fame non dà tregua.

C’è, nel cinema di Erdem, una pacata tristezza connaturata al ritmo stesso della vita, la disarmata giovinezza dei suoi piccoli eroi parla dello smarrimento di un’umanità a cui si raccontano solo menzogne, come quella dell’infanzia felice.

 

Bambino che dormi, svegliati.

Lo so che è difficile.

Sei stato in casa per tanto tempo,

hai smarrito il flauto di giunco…

 

Era il canto di Omer,Yakup e Yildiz, i tre piccoli amici di Bes Vakit (Times and Winds ), ma qui anche il canto tace.

Alì è solo un animale braccato, Zuhal, se sopravviverà al veleno delle bacche e alle drammatiche condizioni in cui le è toccato vivere nel bosco, avrà un futuro di donna-schiava già preconfezionato.

Lo sguardo di Reha Erdem sul mondo è senza illusioni, come quello del poeta, ne vede la bellezza e ne annusa la purulenza.

Il sound design, come sempre molto accurato, tesse le sue traiettorie musicali più vibranti e commosse per parlare di questo sguardo.

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